Il Massimo pasticcio

Sulla nostra politica estera, sulla sua deriva neutral-multilateralista, non c'è niente da aggiungere all'analisi di ieri di Renzo Foa. Non è inutile, però, articolare l'esame dei diversi protagonisti. Sull'ala «ragionevole» (i Rutelli, i Vernetti, i Mastella) c'è poco da dire. Stanno man mano elaborando i risultati della perversa alleanza con l'estremismo, ma sono imbambolati di fronte al dilemma: mettere in crisi il governo o proseguire con l'andazzo in corso.
Più complessa la riflessione su Massimo D'Alema. Il ministro degli Esteri si esibisce in uscite senza né capo né coda: dopo avere fatto il saputello su qualsiasi aspetto della politica americana (e israeliana, altro bersaglio preferito), quasi come un inviato della Cnn - sua definizione - adesso fa l'offeso perché, con una composta lettera, ambasciatori di Paesi alleati rivolgono un appello al governo e all'opinione pubblica italiani per l'unità sulla difesa della libertà in Afghanistan. In questo pasticciare c'è un qualche disegno tattico: il presidente Ds ritiene di potere unire a un apparente antiamericanismo, una concreta azione pro Stati Uniti nella sfera diplomatica. Mentre in pubblico fa la faccia feroce e abbraccia qualsiasi anti yankee, riservatamente è tutto un «bye bye Condy», un cercare di dare una mano in Libano, con Ryad, con il Giappone. Si intravede il retaggio di antiche doppiezze: prima si esibiva adesione alla liberaldemocrazia mantenendo salda la fede rivoluzionaria, ora si fraseggia estremisticamente, per favorire accordi riservati. Una scelta inconcludente.
Oggi la politica estera è difficile (considerate i guai del povero Tony Blair) persino quando si è coerenti. Figuratevi quando si fa i furbi. E le mosse dalemiane sono tanto più disperate perché condotte sotto la regia di un Romano Prodi, segnato da una sempre più evidente miscela di boria e mediocrità. Boria che lo spinge a indicare obiettivi multilateralisti inesistenti, a presentarsi come il vate di un europeismo prometeico. Mediocrità che lo porta a seguire l'istinto affaristico nel rapporto con Stati come l'Iran e la Russia, a contare (irresponsabilmente) sugli amichetti banchieri d'affari per sistemare le relazioni interatlantiche, a fare alleanze con politici in via di tramonto come Jacques Chirac. A non capire che i prossimi protagonisti dell'Europa (le Merkel, i Sarkozy, i Brown, i Cameron) guardano tutti a un più saldo rapporto con gli Stati Uniti. Boria e mediocrità prodiane stanno affossando qualunque margine tattico che D'Alema voleva acquisire con le sue doppiezze. E così il governo più europeista del mondo, un giorno sì e uno no, è sculacciato da Bruxelles: dalle tasse alle pensioni, dai telefonini alle autostrade.
Infine c'è la componente estremistica. Che oggi rappresenta una tendenza niente affatto marginale nell'Europa continentale. Dalla Francia alla Germania c'è un'area politico-sociale, con al centro i lavoratori spaventati dalla globalizzazione, che rifiuta i vincoli di politiche ragionevoli, e propone un antagonismo generalizzato. L'esperienza della Gran Bretagna insegna che quest'area si può ridurre a dimensioni fisiologiche, solo se nella sinistra si apre una vera battaglia politica. Persino politici non privi di vene demagogiche come Ségolène Royal o Gerhard Schroeder sono stati fermi nel differenziarsi dagli antagonisti. In Italia invece il fronte popolare antiberlusconiano pensa di poter scavalcare il problema. Certo negli stati maggiori del nostro estremismo molti leader hanno tratti da sceneggiata napoletana: e così si ritiene di potere procedere nel clima da circo Barnum del governo Prodi. La realtà, però, ha la testa dura: sono migliaia gli «antagonisti» che sfilano sotto lo slogan «non vi voteremo più».

Emergono leader estremisti con cultura e comportamenti coerenti, e con legami veri con il nucleo sociale rappresentato, come il leader della Fiom, Giorgio Cremaschi. Costruire una politica estera responsabile su questa area politica sarà sempre più come edificare sulla sabbia.

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