Il mattatore della guerra spettacolo

La vita d’attore di Buffalo Bill era iniziata nel 1872. Da almeno tre anni libretti come quelli di Ned Buntline, con il collo storto da un’impiccagione fallita, davano al ventiseienne William Frederick Cody il privilegio di vivere nell’epica di se stesso. Ma non vi badava, né s’era montato la testa. Era splendido a cavallo; protetto dalla barbarie, che gli rendeva ovvio spedire alla moglie gli scalpi di indiani uccisi in duello, inorridendola. Ma andare a caccia non fruttava, né poteva vendere la splendida pelliccia che il Granduca Alessio gli aveva donato. E i ricconi dell’Est da portare nelle praterie scarseggiavano, quando arrivò la lettera di Buntline che gli offriva di diventare attore.
Alla moglie disse di accettare per mantenere la famiglia. Ma a deciderlo fu il contorno più infantile della celebrità: la gozzoviglia. Banchetti di femmine educate, ma lascive, che finalmente gli davano sempre e solo ragione, tra aranciate etiliche, salcicce mandorlate al cioccolato e amicali sbornie estatiche. Il Buntline ornato di medaglie era arrivato nel 1872 a Chicago deciso a divenirvi agente di assicurazione contro gli incendi. Ma un tale gli aveva chiesto di assicurare un cadente salone, fatto d’assi e tetto telato. Buntline rifiutò accortamente. Ma si convinse che lì poteva iniziare il trionfo teatrale suo, di Buffalo Bill e di Texas Jack Omohundro, altro esagitato.
Così Buffalo Bill arrivò a Chicago, rinunciando al non lucroso seggio nel parlamento del Nebraska. Ma da subito Buntline ci dovette litigare. Dov’erano i venti pellerossa che Buffalo Bill doveva portare? E del resto neppure Buntline aveva scritto una sola riga di copione. E mancava una settimana alla «prima». Ricopiò un testo già plagiato.
Tuttavia né William Cody, né l’analfabeta Texas Jack, tantomeno Buntline, avevano mai recitato. Pensò d’ingaggiare l’italiana signorina Morlacchi, e a lei toccò la parte di Occhio di Tortora. Per rimediare all’assenza di indiani ingaggiò la feccia dei quartieri bassi. Ecco come la signora Cody annotò le prove in camera d’albergo: «Dall’esterno si udivano suoni simili ai brontolii provenienti da una tana di animali selvaggi. Ogni cinque minuti i camerieri attraversavano la hall con brocche di ghiaccio tintinnante, porgevano le bibite attraverso la porta, e se n’andavano inquieti».
E infatti Buffalo Bill al debutto era emozionato, malgrado l’alcol ingurgitato. In scena non gli venivano le battute. Buntline non si scoraggiò, ripeté più volte: «Sei stato a caccia di bisonti con Milligan vero?». Il tutto evolvette a intervista. Finché col tempismo di uno schizofrenico in manicomio, gli venne di gridare: «Gli indiani ci attaccano!». Arrivarono gli scioperati del quartieri poveri in mutandoni e dipinti. Buffalo Bill si riprese, sparando. Ma venne fatto prigioniero dagli indiani. Buntline aveva a quel punto inserito un linciaggio; torturato ad un palo, si votò poi a un’orazione sulla temperanza. Ed intanto Buffalo Bill s’era liberato e catturava gli indiani con il lazo. Per quanto al calo del sipario esplodesse un’ovazione, il Tribune di Chicago diede sintesi dell’evento deprecandolo. A St. Louis la replica fu rovinata da un giudice che arrestò Buntline per atti di sovversione commessi un anno prima. Giudicando che Buffalo Bill, solo per il fatto di avervi a che fare, meritasse identica sorte. Usciti di prigione non ci tornarono neppure quando un attore, che recitava la parte di Lupo Grosso, morì in scena, in una mischia per eccesso di realismo. Ma a New York fu il trionfo.
Passarono più di trent’anni. E che privilegio ancora nel 1913 era vedere Buffalo Bill, invecchiato e però vestito di camicioni fioriti, fibbie smisurate, stivaloni, mentre sfilava molto più che sessantenne nel corteo del suo circo! Da cavallo salutava ruotando il cappello in aria, esibendo pizzo e capelli argentei, credulo, leale, prodigo, capriccioso, modesto, come una volta; ma depresso. A prostrarlo non erano le palle di vetro mancate nell’arena. Ma il prestito di ventimila dollari non ridati al grassoccio, odioso ex barista, Mr Tammen, il quale a garanzia gli aveva estorto il circo. Non gli restavano che ipoteche e il perfido scritto che costui l’aveva costretto a firmare. Esso lo vincolava a non bere più di un litro di whisky al giorno. Perciò a Kansas City, davanti al manifesto di Bronco Billy, attore cinematografico di western, Buffalo Bill non vagheggiò i monti lontani e violacei, ma molto, molto denaro. E in quel desiderio si sentì illuminato: non più arene polverose, e il dileggio. Ma il cinema.
E al cinema: il suo duello con Mano Gialla, la morte di Custer, la danza degli spettri, Wounded Knee. Assieme a Tammen visitò Broncho Billy. Ottenne che la sua Essanay, prima casa cinematografica degli Stati Uniti, approvasse l’impresa. Del resto Broncho sin da bimbo era un suo tifoso e gli concesse un terzo dei profitti. Così l’Essanay si decise per un film su quella che ancora era chiamata battaglia, e non massacro, di Wounded Knee. Non fu troppo complicato persuadere il Dipartimento della Guerra a fornire truppe di cavalleria ed equipaggiamenti per il film. Il segretario degli Interni concesse persino di usare gli indiani della riserva di Colorado Springs, per rifare la battaglia di ventitrè anni prima con gli stessi attori.
Buffalo Bill in riva al fiume Wounded Knee Creek, dove aveva installato i villaggi indiani, montò una giostra per rallegrare adulti e bambini. Il tenente generale in pensione Nelson A. Miles, che era al comando durante la battaglia, non si vergognò di ripeterla. Furono scritturati altri ufficiali. Tra i capi indiani c’erano Toro Corto, Coda di Ferro, che era già stato salariato nel Wild West Show, e Senza Collo. Un problema fu la megalomania degli attori che, indiani o soldati, insistettero in pose ostentate. Ma il peggior affanno lo provocò il generale Miles che reclamava maniacale precisione e che la battaglia venisse ripresa dov’era avvenuta; quindi sul sacrario delle ossa di molti indiani morti. L’idea provocò la rivolta degli indiani vivi. Ma Buffalo Bill, stremato, li assicurò che almeno il film avrebbe loro reso giustizia, narrando quanto davvero era stata Wounded Knee. Credette di quietarli: invece arrivò il capo Coda di Ferro, a dirgli che il giorno dopo i più facinorosi avrebbero usato proiettili veri, non quelli a salve: la seconda battaglia di Wounded Knee sarebbe stata una vittoria indiana. Solo riunendo a mezzanotte un consiglio di indiani, s’evitò una strage.
Ma l’ultima recita di Buffalo Bill, e la più sobria, fu quella del gennaio 1917, quando lo misero a letto e ce lo lasciarono. Appena chiese quanto gli restava da vivere risposero: non più di trentasei ore. Buffalo Bill allora chiamò il cognato, e gli disse: «Non pensiamoci, e facciamo una partita a carte». Si concesse, evitando di cedere alla moglie che voleva chiamare un prete, una morte da pagano. E nella bara di bronzo i capelli argentei ricadevano sulle sue spalle quadrate: era ancor lui il più bello.

Una delegazione delle sue amanti, obese non solo dai ricordi, sedette intorno alla tomba e vegliò la bara accanto alla moglie. E appena il vetro, da cui si vedeva ancora il suo bel viso, cominciò ad appannarsi, una delle signore s’alzò: rimase regale col parasole di raso nero, ben fermo a ripararlo.
(5. Continua)

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