Maurice Dantec ci ha portato per primo alle "Radici del male"

Nei suoi romanzi, ha previsto l'omologazione e lo stordimento che caratterizzano la società

Maurice Dantec ci ha portato per primo alle "Radici del male"

La prima sensazione è di disgusto. Si leggono le prime pagine de Le radici del male e si è spinti a chiudere immediatamente il romanzo: le tenebre che affrontiamo sulla carta sembrano solo quelle di chi le ha scritte. Poi con una curiosità che in un primo momento ci sembra insana, autolesionista, riapriamo il libro e continuiamo a leggere rendendoci conto piano piano che quello che sembrano i deliri di uno scrittore che usa la violenza più estrema diventa il disegno di una grande opera. Un'opera che ci racconta come i nuovi campi di concentramento siano le «cittadine di passaggio ed enormi quartieri residenziali-popolari» («campi dalla morte lenta, e capitava di chiedersi quando i detenuti si sarebbero rivoltati per davvero, come a Mauthausen»); come la tv trasformi «la gente in fantocci» e come le grandi aziende farmaceutiche mirino con nuovi farmaci a «creare una mutazione genetica» nella popolazione; come il controllo avvenga tramite «acceleratori neuronici» e droghe sintetiche.

Una narrazione che ricorda da vicino, e per stessa ammissione dell'autore, le paranoie di Philip Dick, le società immaginate da James Ballard dove la società non è altro che una «mostra delle atrocità», dove la violenza diventa il nostro immaginario come nei romanzi di William Burroughs: tutto sotto l'egemonia culturale e sociale, tele-comandata dalla televisione, come nei saggi di Jean Baudrillard.

Poi giriamo pagina e ci imbattiamo nel serial killer Andreas Schaltzmann che diventa protagonista e che si avvicina molto all' American Psycho di Bret Easton Ellis e ai luoghi oscuridi James Ellroy: e così si sviluppa la prima parte del romanzo che ha trama e ritmo dei noir più violenti mentre nella seconda parte si trasforma in un libro di fantascienza.

Anche i rimandi letterari sono tantissimi - dall'argot di Celine al Situazionismo di Raul Vaneigem, alle tenebre di Dostoevskij, al Michel Houellebecq de Le particelle elementari.

Scrittori e sociologi che, con onestà, l'autore cita nella bibliografia alla fine di questo libro di oltre 600 pagine che - uscito per la prima volta in Italia per Hobby and Work per la curatela di Luigi Bernardi e Sabina Macchiavelli nel 1999 torna dal 24 Febbraio nelle librerie per Minimum Fax - letto oggi edizione si conferma come una pietra miliare della letteratura non solo francese.

Eppure l'autore, Maurice Dantec (1959 - 2016), per anni è stato delegittimato: come scrittore impostore capace solo di imitare chi ha citato come riferimenti tanto che -avvicinandosi molto anche alla corrente fantascientifica americana del cyberpunk- Le Monde in un ampio articolo a lui dedicato titolava a tutta pagina: «Dantec, cyberpunk o cyberclown»?

Delegittimato perché i francesi, prima dell'avvento di Michel Houllebecq, non erano più abituati a una letteratura di violenta critica sociale e ad uno scritture disturbante.

Visionario e apocalittico, negli ultimi anni, Dantec, si definiva un «cattolico futurista», lui che era nato in una famiglia di comunisti: anticonformista, provocatore e scandaloso, più ancora di Houellebecq con il quale condivideva molte analisi sull'evoluzione del mondo e sull'Islam: nella sua opera cult American Black Box del 2006 lo ha definito un «comunismo del deserto».

Dantec, che abbandonò gli studi in lettere moderne per fondare un gruppo rock, gli Etat d'Urgence, e in seguito lavorare nella pubblicità all'inizio degli anni Ottanta, a trentaquattro anni, per la prestigiosa collana «Série Noire» di Gallimard, pubblica il suo primo romanzo poliziesco, La Sirena Rossa (1993), ed è subito acclamato, per poi dare alle stampe questo Le radici del male (1995), considerato da moltissimi il capolavoro del noir moderno.

Quando apparve nelle librerie, lo shock fu immenso. Di dimensioni inusuali (635 pagine, un record per la collana), tra poliziesco e fantascienza, inventa un linguaggio inserendo aggettivi geek (termini che delineano un paesaggio ipertecnologico), gioca con le maiuscole e le ripetizioni, collega le parole con trattini inaspettati: trasforma così il linguaggio scientifico in una partitura poetica. Un rocker dell'inchiostro votato ad un unico obiettivo: la resistenza dell'anima.

Quasi una ossessione che, anche quando sembra scomparsa, è inghiottita nella strana ontologia postmoderna di creature metà umane e metà robot che popolano il romanzo: hanno intelligenza, immaginazione, sensazioni, ma quasi nessuna anima. Creature a cui l'anima sembra essere stata strappata e che lottano per riaverla.

L'anima, per Dantec, è la voce dell'invisibile in ognuno. È la vocazione.

È la singolarità della vita di ciascuno, il farsi della persona. È la traiettoria ideale nel mondo. È la bussola del destino. È immortale perché porta la traccia della creazione divina, e il diavolo vuole renderla mortale.

Con Dantec, la fantascienza diventa la cornice narrativa per la più antica delle battaglie. Perché, come scrive, è solo «attaccando le radici del male che l'umanità potrà un giorno liberarsi dalle sue catene».

E per comprendere la sua scrittura basti leggere un passaggio per coglierne le sue infinite potenzialità: «Il globo di fuoco si gonfiava bruscamente nella notte, proiettando il suo respiro verso le stelle e sul suo viso. La vecchia baracca prese fuoco con un'enorme fiammata, come una gigantesca scatola di fiammiferi, e Schaltzmann sorrise alla creatura arancione. Il calore irradiava e accarezzava la sua pelle. La luce delle fiamme danzava sul mondo di erba selvatica e alberi tozzi. Un filo di fumo nero si arricciava sul tetto, che scricchiolava come un unico foglio di cartone gettato nel fuoco.

L'odore del napalm, della benzina e della plastica bruciata gli riempì le narici di un profumo pesante e inebriante. Il profumo della liberazione. Il bacio dell'inferno».

Ed è in questo inferno che viviamo noi, anche se le armi sono diverse.

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