Croce, crociato, crociata, crociate. Le guerre sante della Cristianità, le crociate, sono figlie d’una realtà, la crociata. Ovvero: chi sparge il sangue per difendere l’«eredità di Cristo» - la Terrasanta e i cristiani - non è un mero assassino, bensì compie un’opera meritoria. Il crociato è dunque un uomo in armi che si cuce addosso una croce di stoffa, il cui significato è duro come il legno del Golgota: «Chi vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua». Questo passo del Vangelo (Matteo 16,24) è il filo rosso di tutta la storia delle crociate, concepite dai partecipanti come un «atto d’amore»: verso Cristo e il prossimo.
Un vero paradosso, acclarato da storici come l’accademico di Francia Jean Richard, cofondatore della Società internazionale per lo studio delle crociate. Studi come la sua monumentale Grande storia delle crociate - che apre la collana del Giornale dedicata al Medioevo - mostrano senza pudori grandezze e miserie di quei tre secoli e oltre di Storia che sono state le crociate. Fatte di vittorie e sconfitte, sul piano politico, religioso, culturale e umano.
Le crociate pongono un’infinità di problemi, ma sono due quelli principali: il primo riguarda la Chiesa e il Cristianesimo, il secondo l’Europa e l’Occidente. Il primo è: versare il sangue nel nome di Cristo è un’eresia? Il secondo: le crociate sono state difesa o aggressione, hanno protetto l’Europa o l’hanno «esportata»? Nel Medioevo questi due problemi erano strettamente connessi perché l’Europa era la Cristianità, anche se non tutti la pensavano allo stesso modo. Ora il quadro è molto mutato, ed è chiaro che le risposte che diamo a questi problemi dipendono da quel che pensiamo di Chiesa e Cristianesimo, Europa e Occidente, guerra e pace. Il presidente Francesco Cossiga ha già toccato il secondo problema martedì scorso da queste colonne; domani lo riprenderemo con un altro grande studioso delle crociate e autore per la nostra collana, Jean Flori. Oggi affrontiamo il primo problema.
Ebbene, la crociata è eresia? È stato blasfemo tutto lo sforzo politico, economico, filosofico, teologico e propagandistico che ha sorretto l’impresa delle crociate dalla Terrasanta alla Spagna, per parlare solo di quelle contro l’Islam? Così sembrerebbe, e non più solo in seno alla cultura politically correct, ma ora anche nelle sacre stanze, almeno a leggere il discorso che papa Benedetto XVI ha tenuto a Colonia davanti ad alcuni «amici musulmani».
Ammettiamo per un momento che «combattere il nemico e uccidere l’avversario» sia cosa «sgradita a Dio»; si aprono allora due questioni. La prima è: ciò vale anche per l’Islam? E riguarda tutti gli avversari, dai monoteisti ai pagani, compreso l’Occidente secolarizzato e neopagano? Eppure nel Corano viene detto: «Uccidete i miscredenti ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati» (sura 9,5). È sbagliato, è un refuso? Qualche islamico di pregio dovrebbe spiegarlo. E dunque l’intento di «dialogo» con il cosiddetto Islam moderato è indubbio, e si muove sul filo di una complicata sfida: può l’Islam rigettare alcuni passi delle sue sacre scritture? Un problema immenso. La seconda questione riguarda invece la Chiesa, specie quella cattolica: sempre e comunque uccidere è sgradito a Dio? Certo, nel decalogo sta scritto: «Non uccidere». Ma è pure scritto che nulla potestas nisi a Deo, «non esiste potere che non provenga da Dio». E il potere - qualunque potere - è costretto a ricorrere in talune circostanze alla violenza e al sangue, per esempio contro altra violenza. Bene: Dio è sempre contrario? O non è forse avverso alla forza priva di ragione e di diritto? È chiaro infatti che non stiamo parlando dell’abuso del potere, ma del naturale ricorso alla violenza da parte di una qualunque forma di potere sociale e politico per tutelare persone, istituzioni, valori. Forse non si «combatte il nemico» quando si impedisce lo sterminio di una famiglia o di un popolo? E come può avvenire questo senza uso - ragionato - della forza? La risposta a me pare dolorosamente una. Ora: sebbene quello della Chiesa non sia un potere come gli altri («Il mio Regno non è di questo mondo»), pure la Chiesa è in parte nel mondo e, altrettanto certamente, vi è stato (e potrebbe esservi di nuovo) un tempo in cui la Chiesa ha partecipato del potere di questo mondo.
In quest’ottica, torniamo alle crociate: «combattere il nemico» musulmano per ridare libertà ai Luoghi Santi e ai cristiani è stato sgradito a Dio? La crociata è inattuale e in parte sbagliata, poiché la nuova legge si fonda sul comandamento dell’amore più che sul decalogo. Ma se la crociata fosse (stata) sbagliata in toto, le migliaia di laici e di chierici che vi hanno partecipato, spendendovi sudore, soldi e sangue, sarebbero (stati) tutti sgraditi a Dio. E questo non può essere, per la semplice ragione che è stato in larga misura proprio il papato a volere le crociate, promettendo ai partecipanti il Paradiso. Il punto è dunque: comunque, in nessun modo, qualcuno ce l’ha fatta? La «vergogna» di cui si è sentita l’eco a Colonia è sacrosanta per gli eccessi e le deviazioni, come le rare conversioni forzate, le stragi senza senso o l’uso delle crociate per scopi privati; ma chi ha obbedito e operato correttamente non può che aver ottenuto il premio promesso. Il Papa ha ragione: la Chiesa di oggi non deve incitare a nessuna guerra santa, né sottomettere il giudizio del passato al presente, poiché ogni parola e gesto hanno valore eterno davanti a Dio.
Un ultimo rilievo: è ammirevole il paziente tentativo di dialogo con l’Islam che il papato porta avanti.
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