C'erano una volta i comunisti. Erano tragici nella loro fedeltà incondizionata a una ideologia assassina, che a loro sembrava bellissima. I comunisti avevano le idee chiare, troppo chiare: materialismo, marxismo, progresso, lavoro. Appoggiavano il regime di Mosca, dove i comunisti morivano come mosche, schiacciate da altri comunisti in nome del comunismo. In Italia avevano il mito della Emilia Romagna, gli asili della Emilia Romagna, la sanità dell'Emilia Romagna, i militanti delle Feste dell'Unità in Emilia Romagna. In Italia avevano il mito dei partigiani, della Resistenza, della guerra civile, della Costituzione. Davanti all'evidenza di un regime, quello sovietico, criminale e fondato sulla schiavitù, si rifugiavano in una frase tipica come le salamelle alla brace delle suddette Feste dell'Unità: «il socialismo è una bella idea ma realizzata male». No, era una idea folle, che implicava la coercizione e lo sterminio di intere classi sociali. Ma i comunisti avevano una fede inattaccabile, erano come i preti però invece di pregare e credere in Dio, cantavano L'Internazionale e credevano in Stalin.
Ma se le cose stanno così, come fa Giovanni Sallusti a rimpiangere i comunisti? Nel suo divertente pamphlet Mi mancano i vecchi comunisti. Confessione inaudita di un libertario (prefazione di Giuliano Ferrara, edito da Liberilibri, in libreria da oggi) Sallusti conduce un ragionamento sul filo del paradosso. Paradossalmente, ma neanche tanto, meglio quella sinistra dogmatica che quella rosé dei nostri giorni. Almeno quella sinistra dogmatica si occupava di produzione, lavoro e aveva tesi forti, per quanto discutibili e talvolta aberranti, sulla cultura in ogni sua declinazione. La sinistra rossa si rivelò pronta a essere annacquata negli anni Sessanta. Augusto Del Noce scrisse Il suicidio della rivoluzione. Tesi: la sinistra si apprestava a diventare un partito radicale di massa, con i diritti civili al posto del lavoro come missione principale. La rivoluzione traslocava dalle piazze alle camere da letto. Esatto. Come scrive Giuliano Ferrara nella introduzione «dal momento in cui il privato si rivelò politico tutto il politico è diventato una specie di insalata russa dei sentimenti e dei comportamenti privati».
Prima però ci fu un passaggio che neanche Del Noce avrebbe potuto prevedere: l'epoca del «ma anche» veltroniano, che era in realtà un «né... né...», né carne né pesce. Né lavoro né letto, al massimo album delle figurine Panini, i Kennedy, la bontà di cuore. Infine, dopo Veltroni, una corsa verso il nulla, ben colta da Sallusti, giunta a compimento con le supercazzole di Elly Schlein, la bandiera rossa corretta dall'armocromista in bandiera arcobaleno, i diversamente alti al posto dei bassi di statura, l'ideologia queer unica priorità della società, la cultura come spartizione del bottino tra amici, i sedicenti scrittori, i sedicenti perseguitati con contratto Rai, i perdenti di successo, più colano a picco qualcosa, più ottengono altre cose (da colare a picco), la politica come rampa di lancio verso l'Isola dei famosi, Jovanotti al posto di Berlinguer, una grande chiesa da Che Guevara a Madre Teresa, le opere da imbrattare, le parolacce da cancellare. La nuova sinistra denuncia la segregazione degli immigrati in quartieri ghetto ma pratica in prima persona l'isolamento quando sceglie la casa in cui vivere o le scuole in cui mandare i figli. Esalta il meticcio ma come massimo contributo alla ibridazione delle culture porta in tavola cibi esotici, comunque serviti accanto agli adorati «prodotti del territorio».
Apprezza tutte le cucine, tutte le letterature, tutte le musiche del mondo senza rendersi conto di allineare sugli scaffali tutta questa diversità, merce tra le merci, da consumarsi barricati nel proprio immobile protetto come una cassaforte da citofoni con codici numerici. Ha ragione Sallusti: erano più seri i comunisti duri e puri.
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