Meglio un solo leader che l'oligarchia del Pd

Mentre nel centrodestra comanda chi ha più voti, la sinistra è dominata dalla nomenklatura come ai tempi del Pci

Meglio un solo leader 
che l'oligarchia del Pd

Mentre le erinni alla Barbara Spinelli, immemori di una Chiesa che condanna il peccato e perdona i peccatori, chiedono che i vescovi si mettano a perseguitare in modo integralmente pagano il capro espia­torio del momento cioè Silvio Berlusconi, fuori dal centrodestra c’è anche chi cerca di ragionare: così Valerio Onida che chiede un sistema politico che prescinda dalla cen­­tralità del leader, così Raffaele Bonanni che pone la questione della partecipazione del­la società alle scelta della politica.

Però per riflettere concretamente su te­mi di tal fatta, oltre a distanziarsi dai taglia­gole, è necessario dotarsi del realismo che nasce solo dalla visione dell’insieme. L’af­fe­rmarsi di un sistema centrato sulle leader­ship non nasce dalla malvagità berlusconia­na (o dalla dittatura della tv come dicono persone, magari un tempo di qualità, che paiono avere perso il bene dell’intelletto) ma da un sentimento profondo del popolo che non sopportava più un sistema integral­mente dominato da oligarchie (sia no­menklature partitiche e sindacali sia esta­blishment innanzi tutto finanziari sia èlite italiane così caratterizzate da sentimenti antipopolari come aveva spiegato lo stesso Antonio Gramsci).

Circa cinquanta anni di storia repubbli­cana, senza naturalmente scordarsi anche le grandi conquiste economiche e demo­cratiche acquisite, hanno visto consolidar­si un sistema oligarchico (poi consistente­mente rafforzato da Mani pulite: un’iniziati­va di giustizia politicizzata che ha regalato, innanzi tutto nella prima fase, spazi inediti a oligarchie economiche nazionali e stra­niere) che alla fine, terminata la funzione storica esercitata dai governi di centro e centrosinistra durante la Guerra fredda, è apparso del tutto insopportabile.

La via di scegliere un lea­der invece che impaludarsi in sistemi oligarchici, ha sen­za d­ubbio anche più di un di­fetto ma ha una virtù insosti­tuibile, cioè consente di «cambiare» quando si è in­soddisfatti: Berlusconi nel 1994, Prodi nel 1996, Berlu­sconi nel 2001, Prodi nel 2006, Berlusconi nel 2008.

Forse è un po’ noiosa l’alternanza solo tra due personalità ma rispetto a una situazio­ne i cui cambiamenti erano il + 1 ,5  per cento a un partito e il- 1,5 per cento a un altro, ap­pare alla società italiana come l’acquisizio­ne di un diritto di sovranità prima negato.
Ridare basi più radicate al­la politica e allo Stato è senza dubbio questione all’ordine del giorno ma non è risolubi­le con ritorni al passato: co­me dimostra quel povero «non leader» che è Pier Luigi Bersani a cui tutti gli aiutini di scatenate magistrature e quotidiani sedicenti indi­pendenti non consentono che di racimolare qualche mezzo punto di vantaggio (vedi gli ultimi sondaggi) sul cen­trodestra.

Senza le minacce che la Guerra fredda im­poneva alla politica nazionale, tornare alla vecchia via dei sistemi integralmente domi­nati

oligarchicamente appare irrealistica. Si potrà riformare la politica (partiti, Costi­tuzione, sistema elettorale) solo non sfidan­do questa volontà di fondo della società.

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