La menzogna del cinema secondo Tornatore

Esce in libreria la trascrizione della lectio magistralis pronunciata dal regista al momento di ricevere la laurea honoris causa dallo Iulm di Milano.

Il cinema dall'idea al film. È questo il percorso tracciato brevemente dal regista Giuseppe Tornatore («Nuovo cinema paradiso», «Malena», «La leggenda del pianista sull'oceano», «Baaria» solo per citare i titoli più noti o recenti) nella lectio magistralis pronunciata al momento di ricevere la laurea honoris causa riconosciutagli dall'università di lingue moderne e comunicazione Iulm di Milano alla fine del 2009 e ora diventata un libro dal titolo «La menzogna del cinema» (Bompiani, pp. 96, euro 9,90). Tornatore, che ha fatto sua una famosa e umile frase di Akira Kurosawa, («Ho fatto decine di film ma non ho ancora capito l'essenza del cinema»), nel suo intervento ha tentato di chiarire l'evoluzione di un concetto, un'idea, fino alla nascita di una pellicola.
Ne consegue che l'opera cinematografica passa attraverso una successione quasi interminabile di stadi e momenti di lavoro per approdare poi davanti a una platea che, quasi inevitabilmente, ne trarrà impressioni e suggestioni destinate a diversificarsi a seconda dei contesti nei quali avviene la visione. È questa, in buona sostanza, la menzogna del cinema di cui si accenna nel titolo. Dal momento in cui un'idea si affaccia nella mente di un regista si assiste infatti, secondo Tornatore, a un vorticoso accavallarsi di scritture e riscritture tendenzialmente diverse l'una dall'altra. Sono i mille modi in cui articolare un racconto, attraverso la sceneggiatura, in un primo momento per poi passare alla scenografia e toccare addirittura infinite revisioni degli stessi progetti. Anche la stessa elaborazione, intesa come effettiva e pratica realizzazione del film, dal punto di vista delle riprese e dei set, può subire ritocchi e correzioni rispetto a quanto fissato su carta nella sceneggiatura.
Possono cambiare condizioni meteorologiche, luci, perfino attitudini psicologiche degli attori. Tutto può rivelarsi diverso da quanto inizialmente programmato sulla carta. Il film insomma viene a vivere così una delle sue infinite riscritture che non si circoscrivono unicamente a tutto questo. Il momento del montaggio può subire nuovi interventi. Nuove modifiche. Nuove revisioni. E cambiare radicalmente il cordone ombelicale che fino a quel momento legava il film a un'idea. Un'idea che nel corso della lavorazione aveva già trovato mille momenti per assumere una fisionomia diversa. Già, il montaggio. Il vero linguaggio del cinema secondo i semiologi alla Christian Metz.
Tuttavia, solo a quel punto, quando l'opera cinematografica è pronta per approdare davanti al pubblico, appare teoricamente come finita. Non nel senso di conclusa, ma in quello di compiuta. E con pochi aspetti in comune con i progetti originari. Nondimeno non terminano le riscritture. Stavolta ad apportarle è il pubblico. Perché, sottolinea Tornatore, un conto è osservare un film da soli, un conto in un cinema gremito. Un conto osservarne una copia integra, altro è invece assistere alla proiezione di una pellicola a fine sfruttamento. Un conto osservarla in lingua originale e altro infine dopo un doppiaggio. E gli esempi potrebbero continuare. All'infinito.

Perché gli stati d'animo di ogni spettatore cambiano a seconda dei giorni. Delle ore. E perfino sulla scorta dell'umore del momento. Variabili che, inevitabilmente quanto soggettivamente, ne alterano la ricezione. E' la menzogna del cinema. Qualcosa di mai uguale nemmeno a se stesso.

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