È Riccardo Zacconi il re di King.com, l'azienda di videogiochi alla ribalta per il successo planetario di Candy Crash. Co-fondata nel 2003 e venduta a quasi 6 miliardi di dollari nel 2016, King è il punto d'arrivo di un percorso professionale iniziato in Germania come consulente in una multinazionale, proseguito con la creazione (a Stoccolma) del portale Spray, quindi di uDate. Un anno in Benchmark Capital, la compagnia che ha finanziato Dropbox, Instagram, Twitter, e Zacconi era pronto per fondare l'azienda sviluppatrice di videogame.
In questo momento Zacconi, personalità tra le più influenti del digitale, lavora al lancio di 42 Roma Luiss, accademia di coding, gratuita e per talenti digitali. École 42 è un sistema di scuole diffuse in tutto il mondo per accedere alle quali non serve nessun titolo di studio, conta un cervello dal pensiero logico inappuntabile. È l'università Luiss a fare da apripista in Italia ospitando la scuola nell'Hub di LVenture nella Stazione Termini. Da qui usciranno IT security engineer, blockchain engineer, cybersecurity administrator, video game designer.
La carriera di Zacconi è piuttosto articolata, ma allo stesso tempo compatta poiché rigorosamente cucita attorno a una priorità: portare a bordo, dunque d'azienda in azienda, i collaboratori di sempre. Ovviamente i migliori.
Come sceglie le persone con cui lavorare? A quali caratteristiche umane e professionali non potrebbe mai rinunciare?
«All'affidabilità e all'attitudine a dare il massimo. Conta poi essere veramente bravi nel proprio campo. Abbiamo creato King con la vecchia squadra di Spray. Sebastian (Knutsson), geniale, era il capo del prodotto in Spray così come Thomas (Hartwig) era fra i migliori sviluppatori. Lars (Markgren), project manager in Spray, è diventato Cto di King».
La più grande lezione del periodo trascorso in Benchmark?
«La consapevolezza che l'idea è interessante solo se ha un grandissimo potenziale. E l'ha se è nuova e competitiva a livello mondiale».
La prospettiva internazionale dovrebbe valere soprattutto per un Paese piccolo come il nostro.
«Invece ci si lamenta della carenza di soldi, ma non è questo il problema. Sono tanti i soldi nel sistema mondiale di venture capital. Il nodo è un altro: la mancanza di idee e di team per realizzarle. Se non c'è un'idea forte e con potenziale internazionale, gli investimenti non si muoveranno mai dagli Usa, Londra o Francia con destinazione Italia. In Svezia, chi ha una nuova idea non si sogna di concentrarsi sul solo mercato svedese, pensa subito a livello internazionale».
In Benchmark la competitività si taglia col coltello. Come si trovava in quell'ambiente?
«Anch'io sono competitivo. Ricordo una partita di pallacanestro, il team di Londra contro i partner di Benchmark. Erano tutti bravissimi e altissimi. Io sono alto, ma pessimo in pallacanestro. Però non mi andava di perdere, e alla fine li ho buttati giù giocando più a rugby che a pallacanestro».
Perché ha deciso di sostenere anche finanziariamente il progetto di 42 Roma Luiss?
«Penso che faccia bene all'Italia quindi supporto come posso».
E con lei, anche Emma Marcegaglia che tra l'altro la premiò Alumnus Luiss 2018.
«A suo tempo non mi avrebbe dato il premio».
Perché? Che studente era?
«Uno che cercava di essere molto efficiente puntando ai bei voti ma studiando all'ultimo. Aggiungo che c'erano materie che proprio non digerivo».
Quali?
«Legge. Ho una memoria pessima. Le cose logiche le ricordo perché costruisco i vari passaggi, ma fallisco miseramente con le materie dove è richiesta tanta memorizzazione».
E comunque, a 24 anni si portò a casa un bel 110 e lode.
«Ma c'erano studenti più bravi di me, più regolari».
Perché ha deciso di scommettere su 42 Roma Luiss?
«Visitando la sede di Parigi avevo incontrato un ex pasticciere che, per un incidente, non poteva stare in piedi più di tanto dunque aveva deciso di riqualificarsi iscrivendosi all'Ecole 42. Sei mesi dopo aver finito la scuola, mi scrisse informandomi che aveva creato una start up trovando già i finanziamenti. Era la conferma concreta che l'approccio funziona. Poi mi affascina l'idea di una scuola centrata sul talento, perché il successo di una scuola o azienda si deve anzitutto a un fattore: chi ti porti a bordo, il capitale umano. In questo caso, persone che devono aver solo un requisito: passare i test d'ingresso di logica».
Perché l'accademia è a Roma e non a Milano che è la punta del digitale in Italia?
«Perché Roma è al centro dell'Italia, la sede è bellissima e logisticamente vincente essendo nella stazione Termini. L'obiettivo è focalizzarci su questa sede, consolidarla e far sì che sia un successo. Poi ci impegneremo a diffondere la scuola altrove, anche a Milano».
Come si sta nei panni del filantropo?
«Filantropia è una parola grande. Sembra un'operazione dall'alto al basso. In realtà tutto nasce da una passione. Io amo l'Italia, e vorrei che andasse meglio perché c'è un grande potenziale. Se il nostro Paese è agli ultimi posti nel settore tecnologico vuol dire che ci sono cervelli in gamba e smart non utilizzati e con questa scuola li vorremmo focalizzare sul settore tecnologia. L'Italia può fare tanto e bene. Pensiamo a noi di King: eravamo in 6 quando iniziammo, e abbiamo lasciato un'azienda con 2mila persone, 2 miliardi di fatturato e 800 milioni di profittabilità. A dimostrazione che puoi fare cose grandiose con poche persone, senza investimenti ingenti e in qualsiasi posto».
Sta dicendo che non è necessario essere nella Silicon Valley, a Tel Aviv o Shenzhen per spiccare il volo nel digitale?
«Esattamente, fermo restando che operare in un'area con alta densità di talenti e persone in gamba porta i suoi vantaggi. In compenso il sistema dell'Ecole 42 consente di entrare in una rete di scuole molto estesa e non escludo, anzi caldeggio, il fatto che i talenti si spostino di Paese in Paese».
Senza, per questo, dover parlare di cervelli in fuga. Corretto?
«I cervelli devono andare fuori per imparare. Non chiamiamole fughe. Io stesso sarei tornato 20 anni fa se vi fossero state le condizioni. I nostri ragazzi avranno accesso alla rete dell'Ecole 42 ma anche al tirocinio in società tecnologiche dove potrebbero essere poi integrati. Stiamo inoltre creando una rete di mentori italiani o di americani con radici italiane che sono nella Silicon e che potrebbero essere un riferimento per i nostri studenti. La Silicon è solo un'autostrada se vai là senza conoscere qualcuno che ti apra le porte e ti faccia comprendere cosa sta dietro a tanti successi».
E la nostra mente va a Luca Maestri, direttore finanziario di Apple. Eccellenza fra le eccellenze italiane
«Luca ci sta aiutando a metter su il network. Per questioni di tempo, non può fare da mentore. I Ceo non rispecchiano il profilo del mentore tipo, sono troppo impegnati».
Scarseggiano le donne nell'alta tecnologia. Cosa fare?
«Bisogna agire. E subito. In King abbiamo fatto tanti sforzi per superare il problema. Se vuoi avere un candidato donna, ne devi vedere 10. Se ne vuoi 10, ne devi trovare 100. Se ne vuoi 100, allora devi lavorare nella scuole e promuovere corsi di coding per donne. In UK supportiamo molto queste operazioni».
In Italia chi sta facendo molto bene nel digitale? Chi ammira?
«Federico Marchetti, in gambissima, gran lavoratore. E sono sicuro che dalla sua Yoox, proprio come dalla nostra King, siano nate spin off. Una volta che un professionista ha assaporato il successo in una società di respiro internazionale, non torna più indietro. Chi ha lasciato Yoox o King non va a lanciare una start up focalizzata sull'Italia, ma pensa a livello mondiale. Nella Silicon hanno impiegato 20 anni per creare questo volano, mettiamo in conto qualche annetto anche noi. Con 42 Roma Luiss non intendiamo creare occupazione per i 150 iscritti, semmai l'obiettivo è che creino aziende dalle quali ne nascano altre».
Con King è proprio tutto chiuso?
«Sono uscito completamente. Ma continuo ad essere in contatto. Conosco tante persone lì dentro».
Curiosità. Lei gioca con i videogame?
«In famiglia si gioca ogni sera a LittleBigPlanet, manca il tempo però, perché nonostante abbia smesso di lavorare sono più impegnato di prima, passo da uno zoom all'altro».
In casa Zacconi si gioca a CandyCrash?
«(scoppia in un riso) No, non in questo momento».
Ha lanciato il fondo Sweet Capital. Su chi investite?
«Su ciò che pensiamo di capire, su start up early stage, e nel mercato mobile consumer».
Lei è un angel investor o venture capitalist?
«Facciamo valutazioni da 5 a 20 milioni di dollari. Quindi sia l'uno sia l'altro».
King è la sua creatura. Malinconie da lontananza?
«Ora la sofferenza viene dal pianoforte. Sto imparando a suonarlo, ho iniziato a marzo ma non bastano mai le ore. E' un pozzo senza fine.
E come studia?
«Avevo iniziato con un software affiancandolo a un maestro. Poi ho optato per il solo maestro: lui mi assegna i pezzi, e io li imparo. Penso che non stiamo seguendo le procedure ortodosse. In questo settore la mia ambizione è molto bassa. Non ambisco a imparare a suonare le note in modo perfetto, vorrei imparare a esprimermi senza le note, a improvvisare».
Dalle caramelle al pianoforte, un bel salto.
«Se il pianoforte fosse come le caramelle, sarebbe tutto più facile».
Londra per tutta la vita oppure ci sarà spazio anche per l'Italia?
«In questo preciso momento, sono fermo a Londra: io che viaggiavo 200 giorni l'anno Comunque progetto di tornare a Roma, non nel breve tempo però».
Ha mai lavorato in Italia?
«Pochissimo e tanto tempo fa. Ricordo un'Italia molta burocrazia, con tanta presenza dell'autorità, anzianità e gerarchia. E se ti ritrovi il capo che vuole approvare qualsiasi cosa e vuol essere il più intelligente di tutti, la cosa non funziona».
E lei che Ceo è stato?
«La mia funzione non era quella di decidere tutto, ma di portare a bordo le persone più in gamba, definire la strategia insieme a loro e poi creare le condizioni perché potessero operare senza ostacoli. Significa sapere che alcune cose non andranno a buon fine, ma quando falliscono devi comprenderne le ragioni ed essere di supporto morale per far ripartire tutto. Spesso il fallimento e il successo sono molto molto vicini».
Qual è la lezione positiva impartita dal Covid?
«In novembre ho moderato un panel nel settore farmaceutico, e ho fatto proprio questa domanda. C'era Mene Pangalos, responsabile della R&D di AstraZeneca, tra l'altro un amico. Ho poi chiesto come sono riusciti a innovare così velocemente. Pangalos ha spiegato che prima impiegavano almeno 3 anni per la prima fase e altrettanti per la seconda. Questa volta: uno solo. Ed è stato possibile perché è stata accordata la responsabilità ai singoli team, evitando di dover per forza approvare decisioni a livello centrale. Le procedure sono così diventate veloci. Che poi era l'approccio che avevamo in king.com».
Controindicazioni?
«Si corre il rischio che i singoli team prendano decisioni sbagliate, potrebbe quindi dire che alcuni
progetti magari non funzionano. Ma il team è quello che ha più informazioni, sa bene cosa funziona e cosa no. Si lavora in modo veloce e non burocratico. Se devi approvare qualcosa a livello centrale, si rallenta tutto».
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