La metropoli senza più centro

Traccia: «Città e periferie: paradigmi della vita associata, fattori di promozione della identità personale e collettiva»

Roma, 18 giugno 2006, alle nove della sera - Se non cedessi alla tentazione di spiare in un movimento, in un passaggio smarcante, in un colpo di tacco, l’improvvisa resurrezione di Totti - o mio capitano! - farei a meno di vedere gli azzurri ai Campionati del Mondo; il calcio è roba da medioevo, l’idea di nazionale è bandita dal cuore di ogni vero tifoso. Stasera, ad esempio, potrei andare in giro a godermi lo spettacolo di una Roma deserta: non quella del centro, si capisce, presidiata da turisti ai quali un eroico drappello di anfitrioni continua a rispondere: «Yes, it’s very old - two thousand years ago». Inizierei a bighellonare per il mio quartiere, i Monti Parioli invasi da milioni d’insetti che mordono le bolle d’aria a temperatura di cottura. Il quartiere, svuotato; le automobili nelle rimesse; il «52» fantasma che attraversa piazza Euclide con la bandiera dell’Italia montata sul tergicristallo... Finalmente, nella lentezza scenica, questo posto si mostrerebbe per ciò che è - un ammasso di palazzine sormontate da un cielo di antenne, un luogo non molto diverso da Tel Aviv - e non per ciò che vorrebbe certo sociologismo d’accatto: l’Olimpo degli arricchiti, la passerella delle signore che vanno a far la spesa su decappottabili d’argento. Ho letto, recentemente, che Laura Morante si vergogna a dire che abita ai Parioli. Se sapesse che qui, a cinquanta metri da casa mia, erano gli appartamenti di Fellini e di De Sica...
Se continuassi il mio giro puntando verso Villa Borghese, m’imbatterei nelle zingare di Porta Pinciana, confuse tra gli slavi ai semafori e i travestiti dei ricchi e i travestiti dei poveri. Ma la città, da qualche anno, ha deciso di truccarsi da donna: dove prima erano l’ocra e il rosso pompeiano ora trionfa il giallino, il beige, il bianco civettuolo: se è vero che Roma non è più dei romani, la decisione di cancellare con secchiate di vernice la geografia del Belli e di Trilussa è stata una resa di fronte all’ineluttabile.
Dalla borgata Fidene all’Infernetto, da Ponte Mammolo ai Cessati Spiriti, gli incubi architettonici spacciati per sogni d’un nuovo illuminismo celano al loro interno un’umanità che non so descrivere: sono solo migliaia di occhi che guardano un televisore. Dalla strada - i cassonetti verdi dell’Ama, rigonfi di tutto ciò che vogliamo dimenticare, i motorini accartocciati ai pali della luce - tutto ciò che riesco a vedere sono lunghe teorie di finestre aperte da cui proviene un unico suono: la telecronaca di Italia-Stati Uniti con quei nomi americani così tenacemente protestati.
Città e periferie, paradigma della vita sociale, recita la traccia di un tema di maturità. M’avrebbero bocciato.

Perché non c’è più la città, a Roma; tutto è periferia, specie stanotte, qui ai suoi margini più disperati, dove qualcuno fa finta di seguire un dribbling di Iaquinta e sogna di andar via, lontano da questo vento dolciastro, dimenticato dal ricordo di se stesso, distante da ogni luogo che si chiami Roma.

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