"Mi chiamava radical chic ma con Indro mangiavo fagioli"

L'intellighenzia italiana è passata dal suo salotto: "Come il mio non ce ne sono più. Ho vissuto 40 anni con Leopoldo Pirelli, ognuno a casa sua"

"Mi chiamava radical chic ma con Indro mangiavo fagioli"

A casa di Rosellina Archinto la realtà di carta supera la fantasia. Quando si incontra uno dei protagonisti dell'intellighenzia e della storia dell'editoria italiana del Novecento ci si immagina ovviamente un'abitazione piena di libri. Ma qui, nella sua dimora nel centro di Milano, c'è molto di più, tutto è uno scaffale, un cimelio, rarità di carta. Memorie di una vita. Ride davanti allo sbigottimento, la signora del «salotto radical chic», come lo definiva Montanelli. «Qui di tomi ce n'erano molti di più prima», commenta lei divertita. Poi i ricordi, ancora vivissimi, di Indro: «Lo considero un grandissimo giornalista, uomo intelligente e simpatico».

Signora Archinto: lei e Montanelli vi siete mai frequentati?

«Certo, lui mi invitava a mangiare fagioli in uno dei suoi ristoranti preferiti. Definiva radical chic il mio salotto perché era un po' polemico e poi a volte aveva queste sue puntate da toscano cattivo».

Come andavano gli incontri col «nemico»?

«Facevamo delle belle chiacchiere. Eravamo diversi, lui era uno di destra e io no, ma parlavamo di tante cose. Era un uomo molto intelligente e insisto, un grande giornalista, questo bisogna dirlo e stradirlo».

Oggi a Milano ci sono salotti come era il suo?

«Questo non lo so. Come il mio non mi risulta. Esistono ovviamente ma io non ci vado quasi più, a meno che non mi venga la curiosità per qualche cosa. Oggi forse c'è più mondanità, sono ambienti diversi rispetto a una volta».

In che senso?

«Ai miei tempi ci si imbatteva in uomini di cultura, e non solo. C'erano le gallerie d'arte, gli artisti, penso a pittori come Schifano, Angeli, Tadini e Fontana, dal quale ero andata, in studio. Mi piaceva incontrare, ero molto curiosa».

Curiosa e instancabile anche alla sua età.

«Ora mi occupo dei miei libri, fin che posso, finché ci riesco. Continuo a fare il lavoro dell'editore, leggo le lettere e i manoscritti che mi mandano. Mi basta un'occhiata e scelgo su che cosa fermarmi».

Un po' di cose le ha già fatte (ride alla domanda) che cosa ha capito fin qui, con quello che ha letto?

«Non solo i libri, importante è stato il lavoro di una vita intera. A 28 anni ho iniziato a pubblicare libri per bambini. Il grosso insegnamento? Nella vita è importante poter fare il lavoro che si è scelto».

La carta stampata ora però è in cattive acque.

«L'editoria sta vivendo una stagione difficilissima. Io, vista la mia età e la mia vita, sostengo la carta. Non so se vincerà, so solo che faccio fatica a leggere un libro sul computer. Il pc va bene per il lavoro e i contratti, per il resto meglio il cartaceo».

E il fascino dove lo mettiamo?

«Si pensi all'odore del libro appena stampato. Quando ero giovane andavo per tipografie a vedere i tipi di stampa, un'emozione. Purtroppo questa parte non esiste quasi più».

Come le è capitato di fare l'editore?

«Fin da ragazzina avevo questa mania. Mi piacevano i libri, soprattutto costruirli. Ne conservo ancora alcuni fatti a mano, realizzati con pezzi ritagliati dai giornali, scrivendo i testi, con rilegature fai da te».

Ricordi di formazione?

«Ho iniziato a leggere da adolescente, negli anni Quaranta. La mia passione era Goethe, considero Le affinità elettive uno dei più bei libri che abbia letto. È stato uno choc, perché c'era tutto in quelle pagine, dalla fatalità all'amore».

Cosa le è mancato?

«Durante la guerra ero bambina, mi è mancata la cioccolata. L'ho conosciuta quando sono arrivati gli americani che mi regalavano le tavolette».

E cosa ha dovuto fare?

«Mio padre ha voluto che studiassi economia, non mi piaceva. Ho cercato di laurearmi alla svelta. Contemporaneamente facevo mille altre cose; suonavo il pianoforte. Come autore mi piaceva molto Grieg, la sua Primavera».

C'è stato un modello?

«La mia iniziazione musicale, da bambina, è avvenuta a Venezia, dove era sfollato pure Arturo Benedetti Michelangeli, che suonava al teatro La Fenice. Mia madre mi ci portava».

Belle occasioni.

«Ce ne sono state anche a Milano. Al Teatro Nuovo con 300 lire si poteva restare in piedi ad ascoltare. Sono venuti tutti i grandi, dal pianista Cortot in poi. Poi Pollini, un grande, come lui Abbado, li ho sempre visti, eravamo amici».

Viaggi di gioventù?

«Mio marito ha vinto una borsa di studio alla Columbia University e siamo andati a vivere a New York. Ed è lì che ho scoperto i libri per bambini che poi ho portato in Italia, dove in questo campo c'era una letteratura ancora di serie B».

Ha avuto buoni consiglieri?

«Avevo un ottimo rapporto col designer Munari, con cui ho lavorato a lungo, così anche con Leo Lionni. Munari era un uomo affascinante, per niente supponente».

Chissà quanti intellettuali e scrittori.

«Arbasino un carissimo amico, sapeva tante cose. Quando andavo a Roma mi portava sempre in giro. Ricordo la litigata che fece con Paolo Grassi».

Continui.

«C'era Natalia Ginzburg che si era un po' innamorata dei miei libri per bambini. Andavo a trovarla a casa sua a Roma, abbiamo fatto una collana per i ragazzi, per stimolare in loro la voglia di leggere. Dai racconti di Maupassant aveva fatto una scelta fantastica».

Quanti giganti.

«Calvino, che ho conosciuto bene, mi ha dato dei suoi testi per le mie pubblicazioni. Buzzati l'ho frequentato meno. Volevo pubblicare qualcosa di suo, magari le lettere, ero stata anche da Almerina (la moglie dello scrittore, ndr). Di Buzzati colpiva un po' la sua freddezza, la sua perfezione. Poi c'era anche Soldati».

Che tipo era?

«Mario abitava dalle mie parti, ci vedevamo spesso. Quando mi invitava a bere il tè a casa sua, arrivava il carrello con sopra di tutto e di più, poteva essere un pranzo per dodici persone, c'erano dalle cotolette al panettone».

Storie di un'altra Italia, che differenze ci sono rispetto a oggi?

«La mia era una generazione molto curiosa, c'era voglia di vedersi, parlare, comunicare. Ma non avevamo quello che hanno oggi i ragazzi; coi computer tutto è a portata di mano. La trasmissione tv Rischiatutto allora era un avvenimento, la casa dei miei si riempiva, si stava insieme».

A proposito di comunicazione, sarà cambiato pure il modo di scrivere.

«Eh sì, le tecnologie stanno condizionando. Ricevo libri fatti con lo stile degli sms, non mi piacciono. Forse il futuro è questo, chissà... Leggo sempre storie di ragazzi che si lasciano e che si incontrano, non vedo tanta fantasia in giro».

Come editore si occupa molto di lettere, perché?

«Rilke scriveva cose meravigliose, ma dalle sue lettere si incontrava l'uomo; veniva fuori la sua personalità, una spontaneità che in altro modo sarebbe rimasta in superficie».

Come ha fatto a tenere insieme i mille impegni della sua vita?

«Tra lavoro e famiglia, coi miei cinque figli e adesso dieci nipoti, e tutto il resto, è stata diciamo una vita intensa, movimentata. Il segreto è organizzarsi e lasciare perdere diverse cose. Come dire, io non ho mai giocato a carte oppure a golf. Per andare avanti occorre rinunciare a parecchie cose».

E poi c'è il ménage matrimoniale.

«Con mio marito Alberico abbiamo fatto l'università insieme, laurea compresa. Poi cose bellissime, come i due anni in America. Eravamo molto amici e complici, e questo in una coppia, nella vita conta».

Che cosa facevate?

«Non so, eravamo seduti in salotto e gli chiedevo che cosa facciamo nel week-end?. E lui mi rispondeva al volo andiamo a Barcellona. Si prendeva e si andava subito, un bel viaggio in macchina. Facevamo tante cose di questo genere».

Poi c'è stata un'altra vita.

«I 40 anni vissuti con Leopoldo (l'imprenditore Pirelli, ndr). Io stavo con i figli a casa mia e lui a casa sua. Non abbiamo mai vissuto insieme, è stata una scelta mia che ha accettato».

Pirelli dove l'ha conosciuto?

«A una cena. Un uomo che aveva un'etica, un modo di pensare straordinari, mi ha insegnato tanto. Era schivo, raramente diventava amico delle persone, ma se lo diventava lo era per davvero».

Com'è stare con un protagonista della vita pubblica?

«Io non mi sono mai impicciata delle sue cose. Era più facile che lui conoscesse i miei amici che io i suoi. Comunque frequentava l'avvocato Agnelli, era amico di Giancarlo Lombardi (imprenditore e politico, ndr), poi Marco Tronchetti Provera che ha sposato sua figlia Cecilia. Ma Leopoldo non era di certo un mondano».

La politica l'ha mai interessata?

«Negli anni '90 per il Partito repubblicano mi ha coinvolto Spadolini, che ogni tanto vedevo con Leopoldo. Sono stata eletta nel consiglio comunale di Milano, ci sono stata per quattro anni. Ho fatto soprattutto battaglie di tipo culturale, le biblioteche con i loro problemi».

Che cosa l'ha colpita?

«Mi aveva fatto impressione quel che succedeva alla biblioteca Sormani, dove al mattino compravano un quotidiano e, per non acquistarne due, la sera facevano arrivare una stiratrice che lo risistemava a colpi di ferro, un piccolo restauro per metterlo nell'emeroteca».

Fotografia di quel periodo...

«Politica a parte, ripenso soprattutto alle frequentazioni con gli scrittori. Anni in cui ci si incontrava e ci si perdeva. Ho in mente personaggi come il filosofo Marcuse, una sera è stato a casa mia a cena».

E poi?

«A Roma ho conosciuto Moravia e Flaiano perché gli ho pubblicato delle sue cose. Poi Manganelli, che mi ha dato molti consigli intelligenti».

All'estero?

«A un certo punto ho iniziato ad andare a Parigi, dove ho frequentato diverse personalità, da Frédéric Mitterrand allora ministro della Cultura al filosofo Cioran. Una volta sono stata a casa del filosofo Bernard-Henri Lévy».

Con tutte queste esperienze, può dare qualche dritta ai giovani? Per esempio: perché leggere?

«Dico sempre ai ragazzi, se avete un'idea non demordete mai, tenete duro. Invece i giovani spesso mollano. A proposito della lettura, innanzitutto dico che deve essere una cosa gradevole. È come fare un viaggio nella vita altrui. Leggere riempie di felicità».

Voltiamo pagina, Rosellina Archinto lontano dal lavoro.

«Mi piace parlare con le persone, la convivialità. Ma ora in questo senso faccio molto meno, una volta invece...».

Che cosa succedeva?

«C'era il gioco della domenica sera. Chi era a Milano si infilava a casa mia. C'erano Eco, Scalfari, Murialdi, Guido Rossi il mio più grande amico; la Cederna, Stajano, Giangiacomo e Inge Feltrinelli, lei mi voleva bene. Credo molto nell'amicizia, a volte questa supera l'amore».

Nel tempo libero fuori dal salotto?

«Mi piace guidare l'auto, vado ancora in giro. A teatro mi trascina una delle mie figlie; mi piace il cinema, ho adorato il regista Billy Wilder. Il mio attore preferito lo sanno tutti, ho persino le sue foto in casa, Gary Cooper; con il suo nome e cognome avevo chiamato i miei due cani».

Di che cosa va fiera?

«Della Légion d'honneur che mi ha conferito la Francia, dove mi amano molto. A Milano ho avuto l'Ambrogino d'oro».

Non le viene voglia di metterla nero su bianco la sua vita?

«Ci sono due ragazze con le quali ogni tanto registro qualcosa. Vedremo cosa farò di questo materiale».

Alla fine ci sarà il racconto di una sua marachella?

«Da ragazza mi piaceva

la chimica, l'avrei studiata ma a Milano non c'era la Facoltà. Mi divertivo a pasticciare con le sostanze. Un giorno, per una polvere che avevo preparato, c'è stata un'esplosione. Risultato: ho fatto un buco nel balcone».

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