A quindici anni sul set in tre film, a 17 madre di Sabrina. Anticipatrice di un metoo che ha sconvolto il cinema ma all'epoca aveva assaggiato l'omertà femminile. Catherine Spaak è donna precoce. In tutto. Eppure, sostiene di aver vissuto in balìa degli eventi. Di essersi lasciata trasportare troppo in gioventù e, solo ora, possiede un'autodeterminazione mai avuta prima. Saranno gli anni, che poi non sono così tanti, ma la consapevolezza raggiunta porta con sé nuovi ruoli e premi inediti. Come quello consegnatole di recente dal Bardolino film festival nella sua prima edizione, in omaggio alla carriera. Un riconoscimento con il sapore di un tributo a un'attrice amatissima che ha fatto dell'Italia la sua casa. Così, la ragazza che fece «innamorare» Ugo Tognazzi, cercò di sedurre Gassman-Brancaleone e «piantò in asso» Mastroianni, si consegna a un ruolo introspettivo e a un'innocente amicizia con un uomo più giovane. Bipolare lui, alle soglie dell'Alzheimer lei nell'ultimo film, La vacanza, di Enrico Iannaccone, presentato proprio nella rassegna sul Garda.
Che cosa vede, guardandosi indietro?
«Mi stupisco della fortuna e delle casualità propizie, capitate a una ragazza semplice come me. Era una situazione complicata che ho vissuto con leggerezza e trasporto. Come forse era giusto. Come forse la vive un giovane».
Perché complicata? Era il 1960. Pieni anni del boom.
«Ho iniziato a lavorare presto per motivi diversi da quello che si potrebbe pensare. La mia famiglia era molto in crisi e, all'improvviso, si è presentato il cinema».
Come si è offerto a una francesina di 15 anni?
«Mio padre era uno sceneggiatore molto noto in Francia, era amico di Prévert e molti altri autori. Tra questi c'erano registi come Alberto Lattuada che veniva spesso in vacanza a casa nostra in Costa Azzurra».
«Dolci inganni» allora nacque così.
«A mio papà lo disse spesso, parlando di me. Questa bambina farà l'attrice. E così è stato».
In famiglia come la presero, data l'età
«In un certo modo potrei dire di non averne mai avuta una».
In che senso?
«Mio padre non lo vedevo quasi mai. Mia madre, che faceva l'attrice, neppure. A nove anni sono finita in collegio perché avevano iscritto mia sorella Agnès che a scuola non andava bene. Io avevo ottimi voti ma dovetti andarci lo stesso per colpa sua. Quando uscii, mio papà mi diede un passaporto, con una dichiarazione che mi autorizzava a varcare qualsiasi frontiera».
Una stranezza.
«Nessuna ragazza l'aveva».
Genitori emancipati ma famosi. Suo zio è stato primo ministro in Belgio, un famoso europeista.
«E mia nonna è stata la prima donna senatrice a Bruxelles. Viaggiava con un medaglione al collo con la scritta In caso di malessere, nessun prete. Decisamente anticlericale».
In quel momento il cinema diventava la sua famiglia.
«Capitava al momento giusto, in una fase importante di passaggio, di cui peraltro non mi rendevo conto».
Non ci credo.
«Ero in Italia, un Paese diverso come costume e modo di vivere, che ho adorato. Era il posto giusto al momento giusto. Nessuno lasciava tanta libertà a una ragazza. Non parlavo bene la lingua ma mi sentivo a casa».
Cosa ha significato, in quel momento, recitare?
«È stata un'ancora di salvezza. Sognavo l'indipendenza economica. L'idea di essere mantenuta da un uomo, sposarmi e sistemarmi mi faceva orrore».
E «La voglia matta» venne davvero.
«Una svolta. Professionalmente eccitante, umanamente tremenda».
Perché?
«Sul set di quel film incontrai Fabrizio Capucci. Ci innamorammo e restai incinta. Era il '62, avevo 17 anni e, per la mentalità dell'epoca era uno scandalo. Per di più, in un Paese straniero lontano dai familiari».
Come se la cavò?
«Non me la cavai. Fui vittima della mia età. Ero ospite a casa Capucci, dopo il mio matrimonio con Fabrizio. Mi aggiungevo alla sorella Marcella e Roberto, già affermato stilista. Ma non mi sono mai sentita a mio agio».
E decise di fuggire.
«Presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia».
Morale.
«Fui arrestata a Bardonecchia. In frontiera. Allora c'era la patria potestà, una donna non era veramente libera. Così mi riportarono a Roma con mia figlia, per tutto il viaggio in braccio a un carabiniere».
Ma se non si trovava bene a casa Capucci, non bastava parlarne?
«Non si poteva discutere, non era ammissibile. Finimmo tutti in tribunale. Io persi un film con Roger Vadim che avrei dovuto girare a Parigi, La ronde, un adattamento de Il girotondo di Arthur Schnitzler, noto in Italia come Il piacere e l'amore. Un titolo che sembrava una beffa».
Senza passaporto, in attesa di sentenza, è dovuta restare a Roma.
«La giustizia era molto più rapida di oggi. Il giudice fece presto ma fu una tragedia. Almeno per me».
E le tolse sua figlia.
«La motivazione era, a dir poco, discutibile. Sosteneva che la madre, cioè io, essendo un'attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna».
Allora l'equazione attrice uguale donna poco seria era un assioma indiscutibile.
«Però hanno distrutto la mia vita. E quella di Sabrina».
Vi siete ritrovate a distanza di tempo
«Mai più. Non sono riuscita a recuperare quello che il magistrato ha rovinato».
Un'incomunicabilità che sorprende.
«È stata una vendetta dei Capucci. Il lavaggio del cervello di Sabrina ha fatto il resto. Le hanno ripetuto: La mamma è cattiva. Ti ha abbandonato. Offese che hanno lasciato segni indelebili».
Ma anche sua figlia avrà voluto conoscere meglio sua madre.
«Ho fatto molti passi per avvicinarmi ma non ho mai ricevuto ascolto. Quando è cresciuta ho chiesto di vivere un po' con lei ma ha scelto la famiglia e io ho rispettato la sua decisione. Poi, dopo il suo terribile incidente automobilistico, sembrava che potesse aprirsi uno spiraglio. Purtroppo, non è accaduto».
Che dire
«Niente. Detesto chi si piange addosso».
Però un rimpianto c'è.
«Ho avuto la sfortuna di avere genitori molto leggeri. Quando ho avuto bisogno, la mia famiglia non c'è mai stata. Ripeto. Avevo 17 anni».
«La voglia matta» ha significato anche successo.
«Mi arrivavano progetti a valanga e lì sono stata fortunata. Mi ha aiutato l'intuito e forse una certa incoscienza giovanile, fatto sta che ho scelto i migliori».
Ed è stata testimone dello sviluppo della commedia all'italiana.
«Allora era snobbata. Era considerata un sottoprodotto. Eppure La noia o La parmigiana non erano filmetti. È stato un passaggio per tutti - autori, registi, produttori - ognuno nel suo ruolo».
A questo punto è inevitabile continuare con i ricordi. Iniziamo da Dino Risi che l'ha diretta ne «Il sorpasso».
«Un gran signore. Una persona educatissima. Gli porto molto rispetto e ne conservo grande stima».
Un aggettivo per definire Marcello Mastroianni.
«Tranquillizzante. Il set de L'uomo dei cinque palloni è stato spiazzante, anche se divertente. Lui mi ha dato sicurezza».
Marco Ferreri invece?
«Lo incontro a Milano. Ultimo piano di un grattacielo in costruzione. Arrivo con il copione in mano. Lui mi guarda. Lo prende. E lo butta dalla finestra. Ce lo dimentichiamo mi dice sardonico mentre Marcello mi fa cenno di non preoccuparmi, che andava tutto bene».
Poi
«Prima della scena iniziale, naturalmente diversa dalla sceneggiatura, mi spiegò che il cast - tutto maschile - esercitava un rito propiziatorio cantando una canzoncina. Angelo dell'angelo vieni qui da me intonava uno. E tutti dovevano rispondere Non posso perché il diavolo mi tenta. Guardavo preoccupatissima questi pazzi, per fortuna c'era Mastroianni. Protettivo. Gentile. Carino, come uomo e come collega».
Invece, Vittorio Gassman visto da molto vicino
«Ecco, appunto».
Tasto scivoloso?
«No (ride). Era timido ma recitava sempre la parte dello spaccone, sicuro di sé. Come nel Sorpasso. Non è stato facile con lui».
Perché?
«Sul set de L'armata Brancaleone - 40 uomini e quattro donne - ho avuto molte difficoltà linguistiche con un italiano maccheronico e barocco, che non assomigliava all'idioma antico, pur facendogli il verso. Così sono stata presa di mira da lui, Monicelli e tutta la banda. Erano ragazzacci goliardi e impuniti ma talvolta esageravano. Mi accoglievano con insulti pesanti per farmi arrossire e ci riuscivano. Ho sofferto parecchio ma ho scelto la diplomazia. E a distanza di tempo, Vittorio ha capito. E mi ha chiesto scusa».
Come giudica i rapporti tra uomini e donne nel cinema, un tema oggi d'attualità
«Negli anni 80 dissi pubblicamente che per le attrici era difficile essere rispettate. Era il periodo dei ricatti. Io non ho mai dovuto dare niente in cambio per lavorare ma le generazioni precedenti alla mia avevano dovuto affrontare il problema. I ricatti sessuali erano un'infamia».
Una sorta di #Metoo in anticipo.
«Molte colleghe si stupirono. Dissero che doveva essere accaduto solo a me. Sottolineo. Io non ho avuto brutte esperienze. Poi è arrivato il #Metoo. Quello vero. E il problema è emerso».
I set di oggi hanno più equilibrio, però.
«Non si lasci raggirare dalle apparenze. Non credo che i signori uomini si siano ravveduti. È un altro tipo di ipocrisia, il problema rimane».
Secondo lei, perché?
«La maggior parte dei maschietti la butta sul predominio di una donna preda e succube. E molte cedono, per interesse. Convinte di migliorare. È sempre stato così. L'unica differenza è che una volta si taceva. Una questione di potere di cui sono schiavi gli uomini che lo usano e le donne che tacciono».
E il domani Come lo vede?
«Non lo vedo (ride). Me ne strafrego. Oggi mi posso permettere tutto. Anche una parolaccia, se serve».
In che cosa si sente diversa?
«Sono più diffidente con tutti, maschietti e femminucce indistintamente. Prima ero trascinata da un fiume incontrollabile, ora non più».
Anche nell'isolamento della pandemia
«Del Covid non mi sono nemmeno accorta. Due mesi prima che scoppiasse ho avuto un'emorragia cerebrale e sono tornata a casa il giorno che è scattato il lockdown. L'8 marzo, festa della donna. Il blocco mi ha concesso una tranquilla convalescenza».
Che cosa le ha insegnato la malattia?
«All'ospedale Santa Lucia mi hanno salvata e in quel reparto di neurologia ho capito il valore del dono e dell'amicizia. Solo la sofferenza ci fa maturare, purtroppo».
Che cos'è la solitudine?
«Non la conosco. Vivo con i miei due cagnolini, uno yorkshire vecchietto e Maya, un tibetano. Muto e meditativo. In campagna ne ho altri due, entrambi adottati, il maremmano Athos e Dia. Secondo me, tra i randagi, si è sparsa la voce che a casa mia si mangia bene».
Le fa onore.
«Non so cosa mi fa, però mi fa star bene»
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