L'incontro, vis-à-vis, avviene online. Paziente e sorridente davanti allo schermo, Salvatore Accardo, 80 anni compiuti lo scorso settembre, star mondiale del violino italiano è una forza della natura. Non si ferma e pensa già alle prossime date: «Dopo il concerto a Pirano d'Istria, la città del compositore del Settecento Giuseppe Tartini, ho suonato all'Accademia Santa Cecilia di Roma, col mio violino». Già, il violino.
Si può dire che il Maestro sia nato con lo strumento in mano. Non è una esagerazione. Il premio, tra i diversi da lui ricevuti, che meglio lo descrive, si intitola: «Una vita per la musica».
Un'esistenza da romanzo con migliaia di concerti, incontri stellari, viaggi e mille curiosità da raccontare. Per dirne una: da giovane, in America, lo scambiarono per un gangster, per via di una omonimia.
E per un attimo qualcuno immaginò che dentro l'astuccio dello strumento ci potesse essere, chissà, forse un fucile o una pistola. Il maestro ci ride sopra, ancora, e annovera l'episodio tra gli aneddoti da raccontare agli amici. Ma partiamo dall'inizio, dal record che questo grande musicista ha stabilito.
Salvatore Accardo, da 77 anni ha in mano il violino: qual è il segreto?
«Amare quello che si fa. Quello che ho per il mio strumento è un sentimento incondizionato che mi porta a tenerlo nella maniera perfetta».
Un elisir di lunga vita?
«La musica lo è. Sappiamo tutti quanto sia terapeutica, fa vivere bene. Mozart è un autore che aiuta moltissimo i bambini con disabilità, per esempio quelli affetti da autismo».
Poi per i piccoli è un gioco «formativo» bellissimo...
«Da piccolo, con l'aiuto di mio cugino, costruivo giocattoli a forma di violino. Ho iniziato a 3 anni, suonavo Lili Marleen, sentita alla radio, e le canzoni napoletane».
Una casa piena di musica.
«Anche mio padre Vincenzo si cimentava col violino, purtroppo non ha potuto studiare, sarebbe riuscito molto bene perché, seppur autodidatta, aveva un bellissimo suono».
Quanti archi in famiglia, quasi un'orchestra...
«Non era facile averli. Vivevamo a Torre del Greco. Mio padre stette una giornata a Napoli per trovarne uno da regalarmi, spese molto; per questo in casa ci fu baruffa».
C'era la guerra, magari non giravano molto soldi.
«Mamma Ines, era maestra ma non lavorava; papà faceva l'incisore di camei. Ricordo che sotto casa c'era un rifugio, e vicino una scuola presa dagli americani, ai quali papà vendeva i suoi lavori; fu una fortuna. Ci davano cioccolata e marmellate».
Sacrifici ne ha dovuti fare?
«Da giovane dovendo studiare molto non andavo a giocare a pallone, ogni tanto lo facevo di nascosto. Stavo in porta, un ruolo pericoloso per la sicurezza delle mie mani».
Certo che lo studio di un'arte può diventare una «catena»...
«Se lo studio dello strumento diventa solo fatica, allora è deleterio. Ma se, anche da bambini è gioia e non ci sono costrizioni, allora vale la pena continuare».
Non avrebbe voluto, magari, fare un altro lavoro?
«Mia madre voleva che diventassi ingegnere, ero bravissimo in matematica. Mi sarebbe piaciuto fare il calciatore, ma poi mi sono limitato a tifare per la mia squadra, la Juventus».
La emozione più il calcio o fare concerti?
«Il calcio ben giocato mi emozionava come suonare il violino. Oggi come oggi mi piace seguire le partite in televisione, allo stadio vado molto meno».
Proprio una passione.
«Tifo anche per il Napoli, poi la prima squadra per la quale ho giocato da bambino, la Turris, di Torre del Greco, è in serie C e la seguo sempre. Insomma, ho anche un'anima calcistica».
Parla di anima, continui...
(il maestro sorride) «Anche il violino ne ha una. È un pezzo di legno che si chiama proprio Anima, grande come il mignolo, sta nella cassa armonica. Se quel legno viene tolto lo strumento non suona più».
E la fede?
«Sono credente. Ho un rapporto con Dio. Prego tanto, mio padre era molto religioso. La fede mi ha portato a superare il grande dolore che ho provato quando è scomparso. Lui mi accompagnava sempre, faceva le tourneé con me. Insieme abbiamo conosciuto Astor Piazzolla».
Dalla spiritualità ai piaceri materiali...
«A me, come a molti miei colleghi, piace molto mangiare. Poi ho avuto una mamma che era una cuoca straordinaria. I suoi piatti forti, da buona napoletana, erano la parmigiana di melanzane, pastiere varie e casatielli».
Tavola fa (quasi) rima con famiglia.
«Mi sono sposato due volte, la seconda è andata più che bene. Mia moglie (Laura Gorna, ndr), è stata mia allieva. Abbiamo avuto due gemelle, una bionda (Irene) e una bruna (Ines). La prima fa la pianista, molto brava; alla seconda piace il musical, ha una voce notevole».
In più la famiglia della musica?
«Ho incontrato i più grandi musicisti del Novecento, da Segovia a Michelangeli, da Rostropovic a Ojstrach; poi i compositori: Penderecki, Nono, Berio, Donatoni, Vacchi e Silvia Colasanti».
Chissà quanti spettacoli e viaggi, quali ricorda?
«La tourée che mi è rimasta più impressa è quella che mi ha portato in tutto il mondo, nel 1982, in occasione dei 200 anni dalla nascita di Paganini. Per mesi ho suonato tutta la sua musica col suo violino».
Chissà che successo...
«Ho suonato anche per diversi dei nostri capi di Stato. Penso al grande presidente Sandro Pertini che venne a sentirmi a Genova e mi conferì il titolo di Cavaliere di Gran Croce, avevo 40 anni».
Del resto lei fa parte della «scuola italiana».
«Vuol dire uno spirito ben preciso. Vi si trovano nomi quali Toscanini, Michelangeli, Pollini, Abbado, Giulini e Muti; accomunati da un modo di fare musica che significa avere sensibilità, umiltà e particolare rispetto per l'autore, la partitura che si va ad eseguire».
Italiani genio e sregolatezza, che cosa ne pensa?
«Guardando l'elezione del Presidente, posto che apprezzo molto Mattarella, ho avuto la percezione che la politica non esista più. Le alte cariche non vengono decise dal popolo. E non si riesce più a esprimere nuovi nomi, autorevoli».
Chi le era «simpatico» della vecchia classe politica?
«Ero legato a Ugo La Malfa, del partito Repubblicano. Andava in giro con le carte napoletane in tasca, quando aveva un quarto d'ora libero si faceva una partita a scopa».
Nei tempi attuali?
«Alcune cose della gestione dell'emergenza non mi hanno convinto: stadi semi-aperti e teatri chiusi, con danni enormi. C'è chi è andato in tv a parlare, a farsi pubblicità. Mi hanno detto che alcuni sono stati anche pagati».
Meno male che c'è l'arte, ci aiuta a continuare...
«Amo il cinema dei film western, Totò, faro mio e delle mie figlie. L'ho conosciuto che ero bambino, a casa del conte Gaetani, cliente di mio padre, che aveva la villa dove abitavamo».
A proposito di «fari», lei per chi lo è stato?
«Tra i miei allievi Massimo Quarta, il primo italiano a vincere il Premio Paganini dopo di me; poi Giuseppe Giboni. Penso alle concertiste Laura Gorna, Francesca Dego, Anna Tifu e Laura Marzadori».
E per lei quale è stato un punto di riferimento, nella storia?
«Della scuola italiana Vivaldi, Locatelli, Geminiani e Corelli. Tra i violinisti con cui ho avuto anche la fortuna di suonare Ojstrach, Stern e Heifetz. Signori della scena, modelli di compostezza e servitori della musica. Questo si è perso».
Poi c'è Paganini e la leggenda «nera» che lo accompagna...
«Colpa pure di Goethe, che a un concerto riferì di aver visto il diavolo e di aver sentito odore di zolfo. Frasi cavalcate da detrattori e colleghi del genio. Schubert invece disse ho visto Paganini e sentito un angelo».
Oltre la musica e i suoi miti per lei che cosa c'è?
«Nel tempo libero l'unico sport che ho praticato e continuo a praticare è il nuoto. Quando posso vado al mare, in estate in Puglia; la piscina non mi entusiasma».
Un sogno nel cassetto?
«Mi sarebbe piaciuto, come giocatore, partecipare ai campionati mondiali di calcio. Sono andato in Germania, a vedere l'ultimo mondiale vinto dall'Italia. Una gioia».
Bilanci di vita ne fa?
«Posso dire di aver fatto la cosa che amavo di più, la musica. Tra le cose più belle: le seconde nozze e la nascita delle mie figlie. Senza contare le partite a scopone che ho vinto».
L'importante è divertirsi, le pare?
«Mio grande compagno di scopone era Maurizio Pollini. Ci trovavamo a giocare anche fino alle 2 del mattino, con Claudio Abbado e Luciano Berio, che voleva sempre vincere».
Incontri straordinari che lasciano il segno.
«Anche persone fuori dalla musica. Per esempio un'amicizia che ho avuto con un pranoterapeuta sardo, Giuseppe Degortes, che mi ha aiutato in un momento molto duro».
E suoi grandi fan?
«Uno scrittore che amava moltissimo la musica, bontà sua un mio fan, Umberto Eco. Sophia Loren l'ho conosciuta attraverso il compositore Armando Trovajoli. Anche lei era appassionata. C'è l'attore Vincenzo Salemme, grande personaggio che in famiglia amiamo, e il grande Renzo Piano; ho tenuto a battesimo suo figlio Giorgio. Infine lo stilista Gianni Battistoni».
Ce n'è abbastanza per scrivere un'autobiografia...
«Ho già scritto in questo senso. Un libro negli anni Settanta prettamente violinistico. Poi il Miracolo della musica, e ora sto lavorando a uno scritto sulla musica globale, dei grandi compositori».
A proposito di «globalità», quanto si sente vicino ad altre tradizioni?
«La musica zigana è molto interessante, ci sono interpreti straordinari, come Grigora Ionic Dinicu, che scrisse un grande brano come Hora staccato».
E i suoi «ferri del mestiere»? Avrà un arsenale...
«Adesso ne ho tre: un Guarneri del Gesù, un meraviglioso Maggini del 1600 e uno strumento di Ansaldo Poggi (liutaio di Bologna) del 1936; questo mi ha portato molta fortuna».
Il fascino del passato, coi suoi oggetti. Come vede il futuro?
«Parlando dell'educazione musicale, qui non succede mai niente. Faccio mie le parole di Muti: ormai Non siamo più il Paese della musica, ma della storia della musica».
Allora, che cosa ha capito della vita che può trasmettere ai giovani?
«Che nella vita non bisogna solo ascoltare se stessi, ma anche gli altri. Questa è una delle lezioni che si apprende anche facendo musica da Camera. Bisogna imparare anche a non parlarsi addosso. Cosa che succede nei talk-show, tutti chiacchierano e non si capisce niente, e non c'è educazione».
Gran finale tra il serio e il faceto: riveli un segreto che non ha mai raccontato.
«Avevo 20 anni.
Durante la mia prima tournée, alla dogana di New York controllando il mio nome sul passaporto, per un attimo gli agenti si insospettirono, perché Accardo si chiamava anche un famigerato boss (Antonino detto Tony, ndr). Mi fecero aprire la custodia del violino, e poi mi chiesero: Ma lei fa davvero il violinista? Con quella faccia lì?».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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