"Mi sono abituata ad arrivare ultima. Questa canzone è la mia Guernica"

Intervista a Loredana Bertè. La sua lunghissima carriera è piena di "non me l'aspettavo". Alla dodicesima partecipazione ha già convinto critica e pubblico piazzandosi in testa alla prima votazione: "Il mio brano è importante, rappresenta la fine della guerra personale"

"Mi sono abituata ad arrivare ultima. Questa canzone è la mia Guernica"
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- nostro inviato a Sanremo -

Loredana Bertè ma chi gliel'ha fatto fare di tornare ancora al Festival?

«Ci sono venuta perché Pazza è la canzone giusta e volevo diventasse di tutti e che tutti la ascoltassero».

Meglio arrivare prima o vincere il premio della critica intestato a sua sorella Mia Martini?

«Ormai non devo dimostrare più nulla».

Tutti i grandi dicono così.

«Per me non cambia nulla, sono più abituata a essere ultima che a diventare prima. Però c'è una cosa che devo riconoscere e lo faccio con piacere».

Dica.

«Ritrovarsi in testa alla classifica nella prima serata mi ha davvero spettinato. Accidenti non me lo aspettavo».

La lunghissima carriera di Loredana Bertè è piena di «non me l'aspettavo». Non si aspettava di diventare un'icona proprio lei che ha sempre rifiutato le icone perché troppo libera per riconoscersi in una sola. Non si aspettava di arrivare al dodicesimo Festival e ritrovarsi più pubblico intorno di alcuni dei Big che per strada non riconosce nessuno. Dopotutto anche oggi dici Bertè e pensi a quella dose di follia qualche volta esagerata, talvolta gioiosa, ogni tanto incomprensibile ma sempre terribilmente viva. E anche sul palco dell'Ariston nella prima serata Loredana Bertè ha dimostrato che chi ci è nato, sul palco, poi praticamente non invecchia e rimane «giovane a vita» come diceva quel tale. E nei versi del suo brano Pazza c'è un filo autobiografico che è difficile non riconoscere. «Non ho bisogno di chi mi perdona, io faccio da sola». Oppure «Sono pazza di me perché mi sono odiata abbastanza. Prima ti dicono basta sei pazza e poi ti fanno santa». È la guerra tra il bene e il male, tra il tormento e la gioia che sono da sempre la nervatura del rock anche se in Italia, nonostante la vittoria dei Måneskin a Sanremo, il rock non è ripartito. Perciò tenere alto il volume «tocca» ancora a questa settantatreenne che si mangia sempre il palco e pure chi sta sotto, prendendosi persino la standing ovation come è successo durante le prove.

Qui a Sanremo tanti dicono che la cosiddetta «vecchia guardia» stia facendo meglio dei giovanissimi.

«Mah, di certo i miei amici Ricchi e Poveri funzionano alla grande e vanno benissimo. Ma non è del tutto vero che la nuova generazione non funzioni, dai. Dopotutto la mia storia lo dice: sono sempre dalla parte dei giovani e mi è sempre piaciuto buttarmi in collaborazioni con artisti, autori e musicisti come i Boomdabash o Fabio Rovazzi».

Domani, durante la serata delle cover, lei canterà con Venerus Ragazzo mio di Luigi Tenco.

«La scelta del pezzo non è stata un dettaglio secondario, visto anche cosa sta accadendo nella musica e pure qui al Festival di Sanremo».

Ossia?

«Quello è un brano sui rapporti tra le generazioni».

Anche negli anni Sessanta il tema era attualissimo.

«Sì ma c'è un particolare in più».

Prego.

«L'arrangiamento della versione è di Ivano Fossati».

Mai incontrato Tenco?

«No, ma sostanzialmente è come se lo avessi fatto. Tenco è stato un visionario e io ho sempre sognato di portare Ragazzo mio sul palco dell'Ariston. E sono fortunata perché questa versione è una bomba, sentirete che roba».

Si può dire che Loredana Bertè sia

rinata?

«Diciamo che qua in questo Festival voglio chiudere la guerra con me stessa. Perciò credo che Pazza sia la mia Guernica, l'urlo finale della mia battaglia. Io vorrei essere perfetta ma ancora non ci sono riuscita».

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