In occasione della mostra «Michelangelo e il potere», in Palazzo Vecchio a Firenze, a cura di Cristina Acidini e Sergio Risaliti, penso ai temi religiosi dominanti nell'opera di Michelangelo, mentre Risaliti sottolinea: «Per la prima volta una grande mostra dedicata al genio di Buonarroti è allestita in Palazzo Vecchio. E per la prima volta nella storia entra in queste sale quello che a tutti gli effetti può considerarsi un manifesto politico di rara potenza, immaginato contro i tiranni della terra, il celebre busto in marmo di Bruto, il tirannicida, commissionato al Buonarroti dagli avversari dei Medici, fuggiti da Firenze dopo la caduta della Repubblica popolare. Michelangelo non tollerava alcun dispotismo, soprattutto l'uomo solo al comando. Non riconosceva ad altri che a Dio questa centralità, e spese gli ultimi anni della sua lunga carriera a progettare la cupola di San Pietro, in un periodo di crisi del pensiero rinascimentale e del Cattolicesimo, quando l'Europa era tormentata da conflitti sanguinari. In questo senso la mostra proietta gli eventi di allora nel nostro tempo, e si impone ai visitatori con pregnante attualità».
Vorrei, nella circostanza, proporre alcune osservazioni proprio su alcune opere degli ultimi anni di Michelangelo. Partirei da una lettera a Giorgio Vasari: «Messer Giorgio, amico caro. Voi direte ben ch'io sie vechio e pazzo a voler fare sonetti: ma perché molti dicono ch'io son rimbambito, ò voluto far l'uficio mio. Per la vostra veggio l'amor che mi portate: e sappiate per cosa certa ch'io àrei caro di riporre queste mia debile ossa a canto a quelle di mio padre, come mi pregate; (...) spero far quanto mi scrivete, se già non è peccato tenere a disagio parechi ghiotti ch'aspetton ch'io mi parta presto». In questa lettera del 19 dicembre 1554, Michelangelo sembra entrato in una dimensione involutiva. Sono anni difficili, anni in cui faticosamente porta a termine la tomba di Giulio II, e nella Cappella Paolina dà il segno di una creatività frenata. Ma non è una lenta decadenza, che si consuma fino alla morte. Michelangelo rialza la testa e, addirittura, nelle ultime due opere, compiute nell'arco di quindici anni, torna al soggetto da cui era partito, la Pietà vaticana con due capolavori.
Ed ecco allora la Pietà Bandini, ora al Museo del Duomo di Firenze. Tornano a incrociarsi due motivi, che abbiamo già visto altrove, per esempio nelle Tombe Medicee di San Lorenzo: la compiutezza assoluta, un po' ipnotica e forse anche rigida, nella figura della donna dolente a destra del Cristo, e la parte meravigliosa del non finito, i volti di Cristo e della madre. Il che ci conduce a un ulteriore collegamento con l'arte del Novecento, con uno dei grandi artisti italiani, il milanese Adolfo Wildt (1868-1931). Come Michelangelo, Wildt trasfigura la materia in altro, intende raggiungere, nella materia, una dimensione spirituale. Lo si vede in Vir temporis acti, opera che più di trent'anni fa suggerii a Franco Maria Ricci. Il capezzolo è una manopola, quasi da radio déco; l'acconciatura e le sopracciglia antinaturalistiche, rigide, rendono la rappresentazione diversa dalla realtà che vediamo. Il marmo diventa un pensiero, e questa è una delle conseguenze della presenza viva di Michelangelo in lui.
Interessante, nella Pietà Bandini, è anche la composizione a piramide, la quale culmina nella figura di Nicodemo (che ci riporta al Nicodemo di Niccolò dell'Arca). Nicodemo, nella sua superficie scabra, non levigata, nell'incompiutezza del volto, mostra una dolcezza, un'intimità, una profonda meditazione spirituale. Sta osservando il dialogo tra madre e figlio, quasi con commozione. Vasari descrive la Pietà Bandini con grande poesia e ammirazione: «Era questo Cristo, come deposto di croce, sostenuto dalla Nostra Donna - entrandoli sotto et aiutando con atto di forza Niccodemo fermato in piede - e da una delle Marie che lo aiuta, vedendo mancato la forza nella Madre, che vinta dal dolore non può reggere». Tutte le figure intorno a Cristo si aiutano, ciascuna è vinta dal dolore e dalla fatica, condividendo la debolezza di Cristo. «Né si può vedere corpo morto simile a quel di Cristo, che cascando con le membra abbandonate fa attiture tutte diferenti non solo degli altri suoi, ma di quanti se ne fecion mai», vale a dire che Michelangelo crea una composizione nuovissima, come nessuno, neppure lui stesso, aveva mai tentato. «Opera faticosa, rara in un sasso e veramente divina».
La Pietà Bandini viene eseguita tra il 1547 e il 1555. Dopodiché Michelangelo conduce il senso del non finito alle estreme conseguenze con la Pietà Rondanini. Un'opera lentamente meditata, compiuta tra il 1552 e il 1564, anno della sua morte. Oltre dieci anni per un'opera sola. È l'opera della vita e della morte dell'artista. Un'opera sublime, che il destino vuole sia a Milano. Il più grande capolavoro del Rinascimento italiano, e non solo del Rinascimento, che condivide la sua gloria con il Cenacolo di Leonardo, che è dello stesso anno della Pietà vaticana di Michelangelo, il 1499. L'artista sembra essere consapevole della delicatezza, della fragilità di Cristo di fronte alla morte, nel momento della morte. Non è un Cristo eroico, o quello finitissimo, forbitissimo, della prima Pietà: è un Cristo debole, le cui gambe non hanno la forza di reggerlo in piedi, sono compiute ma cadono. Il suo corpo non è definito. Una figura, alla sinistra di Gesù, forse fu scolpita e poi staccata, perché tutto doveva ridursi, senza nessun'altra presenza, alla suprema dignità del rapporto tra madre e figlio. Maria sta dietro Gesù come per sostenerlo, pare offrire al figlio l'ultima forza, le ultime energie. Michelangelo mostra di essere assolutamente contemporaneo nel non finito dei due volti, dei quali non riusciamo a leggere i lineamenti. Sembra che egli non scolpisca corpi, ma anime, non Gesù e Maria ma ognuno di noi di fronte al mistero della morte e dell'essere madri e figli.
La Pietà Rondanini rappresenta ciò che è spirito, ciò che ci lega a Dio. Alla luce di quest'opera si rende chiara la volontà, sin dalla prima Pietà, di rappresentare ciò che è ineffabile, ciò che è irrappresentabile, ciò che è dentro di noi. Comprata nel 1952 per volontà del sindaco di Milano Antonio Greppi - uno dei più grandi acquisti che una città potesse fare -, la Pietà Rondanini è stata esposta nel 1956 in un allestimento memorabile, straordinario, uno dei più belli del Novecento, celebrato come esempio di museografia, opera di BBPR, il gruppo di architetti costituito a Milano nel 1932 da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers, autori anche della Torre Velasca.
BBPR aveva progettato un allestimento che prevedeva una parete, come un paravento grigio, dalla superficie scabra: quanto di più alto si possa immaginare per isolare il visitatore nella meditazione, nella religiosa concentrazione, cosicché non abbia nulla a che fare con tutto ciò che sta intorno all'opera.Lo schema era già stato indicato da Medardo Rosso: quando un'opera è non finita, essa ha un solo punto di vista, quello in cui lo scultore decide che l'opera debba essere guardata nella sua totalità. Soli davanti a Dio.
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