Il Milan liquida Ancelotti E gli ultrà capitan Maldini

I rossoneri perdono con la Roma e San Siro contesta anche il capitano. Maldini stizzito: "Orgoglioso di non essere uno di quelli". Berlusconi congeda l’allenatore. Ma ora il 3° posto è a rischio

Il Milan liquida Ancelotti 
E gli ultrà capitan Maldini

Milano - Un peccato grande così. «Un peccato» dice Silvio Berlusconi tornando dopo mesi a San Siro per chiosare l'addio di Paolo Maldini e, di sponda, il divorzio da Ancelotti. Ma quel peccato, che è una sorta di imprecazione dolce nei confronti del destino, diventa un peccato mortale appena la curva milanista decide di trasformare la festa riservata a Paolo Maldini in uno psico-dramma. «Sono orgoglioso di non essere uno di loro», il capitano chiude così i suoi strepitosi 24 anni, come sanno fare gli uomini veri. Frase da sottoscrivere. Non se lo meritano, un gigante come Maldini.

Il Milan, ferito nel cuore e con le gambe a pezzi, ne paga le conseguenze sull'erba di San Siro, per responsabilità proprie e non solo. Difficile, se non impossibile, ritagliarsi un destino diverso dalla sconfitta, rotonda e meritata tra fischi e cori al vetriolo. Meglio ricordare, insieme con la famiglia Maldini, la "sciarpata" di San Siro all'ingresso in campo del vecchio guerriero, scortato dai romanisti fasciati con una maglietta celebrativa e dai due figli che promettono di prolungare la dinastia leggendaria. I curvaioli rossoneri, da tempo al centro di inchieste giudiziarie (per storiacce di biglietti e di minacce ai dirigenti milanisti) e in rotta con la società, tirano fuori datati rancori (riferiti addirittura alla finale 2005 di Istanbul) per mandare di traverso l'ultimo giorno da capitano a Paolo Maldini che è più di un monumento al calcio moderno. Un peccato che non si può rimettere, cristianamente.

Gli altri striscioni, polemici e feroci anche col presidente Berlusconi, qualcuno scritto sotto dettatura (per caldeggiare la conferma di Shevchenko, per esempio) finiscono col rendere limaccioso il pomeriggio infuocato del Milan, adesso scivolato indietro, raggiunto dalla Juventus in classifica a quota 71 punti, e con sole tre lunghezze di vantaggio sulla Fiorentina. Deve vivere un'ultima settimana di passione, il vecchio Milan di Carlo Ancelotti, giunto al capolinea della sua epoca, durata otto, lunghissimi, felicissimi anni: per meritarsi la Champions senza passare dalla trappola del turno preliminare, non deve perdere a Firenze (al massimo può finire sotto con un gol di scarto, con due si classifica quarto), nello scontro diretto che vale simbolicamente tutta una stagione. Servirebbe un "drizzone" come piace dire a Silvio Berlusconi.

Lo abbiamo capito e segnalato al ritorno da Udine, qui c'è una conferma solenne: il Milan di questi tempi è questo e non vale molto di più. Inutile fare processi a preparatori o a singoli protagonisti, ai reduci delle cavalcate trionfali o ai giovanissimi con la maglia sulle spalle, alla società o alle voci sul cambio della panchina: sarebbe un errore clamoroso puntare su un isolato fattore, dall'insieme si traggono gli spunti autentici. Il Milan è questo non solo per il discutibile genio di Kakà o per l'utilità di Pato ma perché, alle prime scorribande della Roma, la squadra di Ancelotti si divide in due blocchi e subisce contropiedi letali da Menez, uno degli ultimi arrivati dalla panchina di Spalletti, senza che vi sia una qualche opposizione.

L'unico vitale, Ambrosini, risulta decisivo in attacco dove contribuisce due volte a recuperare lo svantaggio con un paio di imboscate. La Roma, che pure non è in gran salute, sembra un'armata invincibile al cospetto del Milan: è vero, passa davanti su punizione, ma è la prova complessiva a rendere meritato l'epilogo firmato dal capitano Francesco Totti. Con quel successo di ieri, la Roma è in coppa Uefa: il suo torneo, da fallimentare, diventa meno amaro. Paga per intero la falsa partenza, gli errori, gli infortuni.

Il Milan invece si ritrova a

pendolare, in modo pericoloso, tra il terzo e il quarto posto che non è come retrocedere d'accordo ma dimostra che il gruppo, dopo una volata durata appena nove turni, è ancora a corto di energie, di corsa, non certo di talento.

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