«Milano? Oggi preferisco Mosca»

Gabriele Basilico è tra i più noti fotografi italiani. La sua autorevolezza è data dall'incessante ricerca sui paesaggi urbani industriali e postindustriali, iniziata a partire dalla fine degli anni Settanta e mai abbandonata. Nato a Milano nel 1944, una laurea in architettura, qui ha sempre vissuto e operato, pur viaggiando in tutto il mondo alla ricerca dell'anima delle città. Viene ora celebrato da una mostra aperta da oggi allo Spazio Oberdan e che, pur non essendo un'antologica, finisce per raccontare l'inizio e la parte finale del suo lavoro documentario iniziato tra le fabbriche e le periferie del capoluogo lombardo e rivolto sempre più verso le trasformazioni globali di una metropoli come Mosca.
Quali sono le differenze tra ieri e oggi?
«In questa rassegna - esordisce Basilico - si trovano due letture per due città per due momenti storici differenti. La Mosca di oggi è una fucina di stravolgimenti urbani che ho osservato nella sua verticalità. È più fotogenica della mia Milano. Lì si concentrano i cambiamenti dell'intero Paese. Quei primi scatti meneghini in bianco e nero furono il frutto delle rivoluzioni economiche e sociali dell'epoca, e anche di quelle fotografiche: si stava abbandonando il genere del réportage per passare a un'impronta più concettuale di documentazione del reale che partiva da un percorso solitario e da un progetto che cerca equilibrio nel disequilibrio».
Com’è la Milano di oggi? Che cosa salverebbe e cosa no?
«Siamo afflitti da una malattia quasi incurabile, intossicati, arrabbiati come in nessun altro abitato. Va prima cambiato l'atteggiamento, va trovato un bilanciamento tra le intersezioni culturali, economiche e politiche. L'Expo, per esempio, deve trasformarsi in occasione di sviluppo, come è stato per Barcellona che per le Olimpiadi ha affidato il rinnovamento a un grande urbanista come Oriol Bohigas. So che è complicato trovare un accordo, qui più che altrove, ma non è impossibile. Ci salverebbe un buon arredo e un linguaggio urbano, serve un miracolo».
Come siamo cambiati?
«È difficile raccontare un luogo per intero. Negli anni me la sono cavata seguendo itinerari. Milano è stata per lungo tempo un centro abitato produttivo, industriale. Oggi è un polo finanziario e commerciale, dove non esistono più una periferia o un centro in senso letterale. Sono stati soppiantati da nuovi punti cardine: i non-luoghi come i centri commerciali sono diventati spazi che offrono maggiori servizi e vanno incontro alle nuove esigenze dei cittadini. Per dire dove è ora la Milano servirebbe un altro Pasolini. Da molto tempo qui si parla di un vero museo, di uno scrigno per l’arte o la fotografia da donare ai milanesi. Ma le cose avvengono in modo più rapido del tempo di analisi di un fotografo. La città si fa da sola, è l’ingovernabilità che caratterizza in vivere contemporaneo».
Come si fotografa un luogo come questo?
«Quando uso la mia fotocamera io non esprimo giudizi da cittadino. Ma non sono nemmeno neutro. Come artista ho un interesse documentario che mi porta verso la periferia e a disinteressarmi al Liberty. Osservo l'architettura e mi rendo conto che rappresenta la nostra memoria storica, è sullo stesso piano della mediocrità della vita che si vive al suo interno».
Lei ha affermato che in questi anni si è fatto più attenzione all’ediziliza che all’architettura.
«Sì. Ho parlato anche di Milano come di una «città interrotta»: è frammentata, senza unità, trasportata da un senso di inerzia che l’ha condotta a questa malattia. In tutta Italia si è solo pensato a costruire, non si è prestata troppa attenzione a un’architettura colta e in relazione con la storia o la gente.

Nel mio maniacale vagabondare ho potuto constatare che i palazzi hanno ovunque un alto valore simbolico: le loro facciate sono facce, sono lì a dimostrare come una comunità ha saputo esercitare il suo ruolo di testimone del suo tempo».

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