Il tratto di cinema che va da Charlie Chaplin a Ken Loach è costituito da una tematica largamente sviluppata negli 80 anni compresi fra Tempi moderni e Io, Daniel Blake. Il lavoro. Un argomento affrontato e interpretato in modo poliedrico da numerose prospettive che lambiscono la politica. E allora il progresso e la catena di montaggio che risucchiano un ormai tardivo Charlot, alimentato per pranzo da un marchingegno meccanico, si specchia nell'esodato operaio di Ken Loach costretto alla fame per un vizio burocratico che impedisce a un cardiopatico di trovare impiego. Dalla febbre dell'oro alla febbre di un lavoro come chimera il percorso è tutt'altro che breve. La Settima arte aveva spiato le fabbriche già con quella Sortie d'usine targata Lumière alla fine del XIX secolo. Prima di Daniel Blake, Ken Loach aveva osservato i lavoratori in Paul Mick e gli altri (2001) e ne La parte degli angeli (2012) in cui un gruppo di ex detenuti dovevano essere «riconvertiti» a una vita di onesti guadagni. Fino al recente In guerra di Stephane Brizè sulle lotte sindacali che hanno conquistato Cannes - e non solo - un anno fa. Un film terribilmente vicino al temporalmente lontano La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri che vinse la Palma d'oro con un atroce dramma sull'alienazione in fabbrica. E la sofferenza esce anche dalle pagine di Roberto Lasagna in Da Chaplin a Loach (Mimesis, pp.
112, euro 10), un volume capace di mettere ordine in una materia sconfinata tentando di tratteggiare come sono cambiati i problemi di chi lavora e, nella fattispecie, di chi ha un impiego in fabbrica. Sforzo vano. Non certo per demerito dell'autore ma per l'inesorabile permanenza di nodi irrisolti.
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