Per capire chi è Aldo Serena da Montebelluna (25 giugno 1960). Mi spedisce la foto del ritaglio di un articolo che ho scritto su di lui nel 1983 sul Giornale: «Sfogliando un libro di Garcia Lorca, alla pagina della poesia il Madrigale mi è uscito questo». Attento al mondo e al campo: è uno dei sei italiani ad aver conquistato lo scudetto con tre club diversi. In ordine: Juventus (1), Inter (1) e Milan (2). «Nel 1985, con il Torino, arrivai secondo, che record sarebbe stato». Nell'Inter 223 presenze/78 gol, nel Milan 46/14 gol.
Aldo Serena, famiglia e primi calci.
«Famiglia di lavoratori. Mio zio aveva una fabbrichetta di scarponi di cui mio papà era direttore. Mia mamma faceva l'orlatrice a casa e io, a 7 anni, ho cominciato a lucidare scarponi. Mattina a scuola, pomeriggio scarponi, sera pallone. A 18 anni sono andato a Milano a giocare a calcio e non ho più lavorato».
Bella questa. Com'è stato l'impatto provincia-città?
«Io ero provincia di provincia. Neanche Montebelluna, Mercato Vecchio: un tempo porto franco della Serenissima. Non ero allegro, cercavo qualcosa per andare via: è capitato il calcio. Ma il 1978 era un anno difficile, le Br imperversavano. I miei erano preoccupati, io non ho avvertito nulla».
La sua prima Milano?
«Un appartamentino a Turro, vicino a dove è nato lo Zelig, 30 metri, cucinino e la Rossa sotto casa. Comodo per piazzale Lotto dove trovavo il bus per Appiano. A novembre esordisco in serie A. Avevo già fatto dieci minuti in Coppa Coppe. Mi tremavano le gambe. Di notte, San Siro con le luci, la folla, per chi veniva dai campetti era come Marte. In campionato segno alla prima con la Lazio. Passaggio di Adriano Fedele che mi fece anche un assist culinario. Prendevo 100 mila lire, vitto e alloggio. Il vitto era di bassissimo livello. Ero alto e magro. Fedele mi invitava fuori un giorno alla settimana. Spesso da Carlo e Emilia. Ricorda? Buonissimo. Mangia tutto quello che vuoi, mi diceva» .
La chiamavamo il ragazzo con la valigia.
«L'Inter mi aveva preso dal Montebelluna a metà con il Como, dopo il primo anno a Milano finii lì. Poi Bari, Inter, Milan, Inter, Torino, Juventus, Inter dal 1997 al 1991, chiusura al Milan ('93), dove, per varie ragioni non ho dato il massimo. Allora i contratti erano anno per anno, non avevi nessun potere. Adesso è l'opposto».
Tra andate e ritorni, ha avuto le sue soddisfazioni.
«Ho vinto due campionati di B e quattro di A. Ma inseguivo le emozioni del grande palco, il brivido, unico, di San Siro. Gli allenatori hanno determinato la mia carriera. Gigi Radice che mi ha voluto al Torino, Trapattoni con cui sono stato sia alla Juve che all'Inter. Bearzot mi chiamò nell'Olimpica a Los Angeles '84. Non solo un allenatore, ma un educatore. Cercava gente di un certo spessore».
E lei era un calciatore che leggeva Garcia Lorca.
«Mai sentito intellettualmente superiore. A Montebelluna un prete, una cara persona, mi ha spinto a pensare con la mia testa, a leggere, a informarmi. Ero curioso, da bosco e da riviera, passavo dalla Scala al Derby. Milano era un parco giochi. Nell'ex Ansaldo vidi uno spettacolo della Fura dels Baus, una compagnia catalana di teatro interattivo. A un concerto di Gaber mi riconobbe sua figlia Daria e mi portò in camerino da lui, ci andai altre volte. Conobbi anche Paolo Conte».
Ogni volta che tornava a Milano, una casa nuova.
«In via Randaccio affittavano una mansarda. Scoprii che era la casa di Giò Ponti. Dall'altra parte, abitava sua figlia, Lisa Licitra Ponti, direttrice di Domus. Ogni venerdì organizzava feste con artisti, fotografi. Infilava foglietti sotto la porta. Erano disegni di una mano o di un fiore, formati dalle parole dell'invito. Mi piaceva quell'ambiente. Purtroppo ero giovane, forse non ho compreso appieno la fortuna che avevo».
Dopo il titolo con la Juve, lo scudetto dei record '89, con l'ente e l'amico Nicola Berti.
«Subito mi stava antipatico. Io ho avuto l'educazione del lavoro: sempre teso a far bene, se sbagliavo stavo male. Nicolino, l'opposto. Dopo l'iniziale diffidenza abbiamo costruito un'amicizia terapeutica: io davo pacatezza, lui restituiva leggerezza. Ci scambiavamo esperienze. Mi portava in discoteche e locali. Io lo invitai a cena in un ristorante Hare Krishna. Dopo ha voluto una pizza».
Il derby di Milano e Torino in compagnia dei grandi.
«Platini, Junior, Mattaheus. Ho finito con Van Basten e Gullit. Era un calcio un po' drogato, ma ci siamo divertiti. Anche per il contorno. Un sabato, in ritiro a Milanello, ci troviamo con un via vai di auto, persone, c'era pure l'orchestrina. Il presidente Farina aveva dato in gestione il centro sportivo a un esterno e questo, nei weekend, organizzava i matrimoni. Così la squadra andava in hotel».
Era famoso per trattare personalmente con i club.
«Mai avuto un procuratore. Parlavo con i dirigenti, facendo capire cosa potevo dare, cosa sapevo fare».
Quando ha smesso dov'è andato?
«A girare il mondo: Tibet, Patagonia, India, Africa. Per un po', nei weekend, diventavo nervoso. Il mio corpo era abituato alla tensione-partita. Poi mi ha chiamato Ettore Rognoni per le telecronache a Mediaset. Era il 1994: mi sono accoccolato. È divertente, anche se ora non si viaggia».
Mai pensato di fare l'allenatore?
«Una volta, uscendo da San Siro dopo una brutta partita, ci siamo trovati, con Trapattoni, in mezzo ai tifosi, anche ragazzini, che insultavano il Trap. Con quello che rappresentava. Ho detto: non fa per me».
Alla fine è tornato a casa, un percorso circolare.
«Me lo ha proposto
Cristina, mia moglie, che pure è milanese: facciamo crescere i ragazzi in campagna, nella prima parte della loro vita. Abbiamo una grande casa, i cavalli. Ma quando andranno all'università, non è detto che non torniamo a Milano».
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