Il capitano Achab non ha mai navigato nelle tormentate acque della Borsa. La sua ossessione era una balena bianca che gli aveva sbranato una gamba. E lui, a quel pachiderma acquatico, non l'aveva mai perdonata. Ci spese l'ultimo viaggio, quello che gli fece perdere la partita e l'esistenza. Il Pequod che andò a picco aveva tutta l'aria - e l'assonanza - per appartenere a quella risma di strani nomi che fluttuano incomprensibili tra gli ambigui marosi della finanza. Invece era il vascello di Achab, al quale tutto mancava tranne il coraggio, forse figlio dell'incoscienza. Dote, o più probabilmente limite, che nell'oceano azionario ha lasciato affogare gli incauti. E ha fatto morti. In oltre due secoli le croci sono state infinite ma il palazzo della Borsa non è mai diventato un cimitero perché il denaro non ha anima, se non soltanto per i più poveri, gli unici capaci di dargli un valore. Lo stesso che nemmeno il comandante dava alla vita, lasciando cadere nel vuoto perfino gli ammonimenti di Starbuck, primo ufficiale di coperta del vascello che doveva averla vinta su Moby Dick. Come il mare non ha mai versato lacrime per i suoi cadaveri, il tempio delle contrattazioni non si è mai commosso per chi ha perso tutto. E, a suo modo, è «morto».
È destino al crocevia se, dopo duecento anni, il braccio destro di Achab, con una esse in più in dotazione, sia entrato nella sala dove un tempo si urlava, si ripetevano gesti codificati per comprare e vendere titoli. Sottinteso, azionari. Quando Starbuck emise i suoi primi vagiti d'inchiostro era il 1851 e quella di Milano era la quarta sede di contrattazioni più antica dopo le veterane. Venezia era nata nel 1630, Trieste aveva aperto nel 1775 e Roma solo sei anni prima della capitale morale, nel 1802. Tuttavia, né il vecchio lupo di mare, né l'algido tempio del denaro avrebbero immaginato che le rispettive rotte si sarebbero incrociate.
In fondo, nelle stive del Pequod si annidavano le stesse «volgari» mire degli urlatori della finanza nostrana. Tutti a caccia di potenza. Achab, che forse non era la personificazione del Bene ma lo rappresentava, voleva dominare il Male incarnato dalla balena e si lasciò divorare dalla propria furia autodistruttiva di cieca vendetta prima che dal mammifero. Gli agenti erano ammalati di un'inguaribile sete d'oro. Il possesso, metaforico o materiale, abitava insomma a Palazzo Broggi, che in pochi conoscevano con questo nome e tutti invece semplicemente come la Borsa di piazza Cordusio.
Eppure azioni e obbligazioni vi entrarono, neanche tanto in punta di piedi, solo con il Novecento. Era l'ottobre del 1901 quando il trasloco delle grida si spostò di un centinaio di passi. L'addio a Palazzo Giureconsulti, dove il mercato dei titoli era arrivato nel 1809, dopo un anno di permanenza al Monte di Pietà, avvenne tra le attese e le speranze di non fare la fine di Starbuck senza esse, che sessant'anni prima era stato risucchiato negli abissi con Achab e il mitico veliero. Nel XIX secolo Eugenio di Beauharnais, rampollo di napoleonica adozione e vicere d'Italia, s'inventò il borsino che, nonostante contrattazioni ridotte, stava stretto in quello stabile dove i poveri impegnavano le loro miserie per un pugno di spiccioli. La stessa ragione portò il piccolo grande Barnum della finanza a Palazzo Broggi che, altri non era se non l'architetto di maggior fama dell'epoca. E in Cordusio era di casa. Quello della Borsa non fu l'unico edificio che progettò e un altro ne eresse. Proprio di fronte. Per il Credito italiano.
Sensibile al guadagno e allergico alla letteratura, poco o nulla sapeva di Moby Dick e i suoi eroi. E meno ancora ne erano in dimestichezza i mediatori che si portavano mani tese alla fronte, imitando un saluto militare, per ordinare un pacchetto di Generali o facevano finta di guidare nel vuoto per prenotare le Fiat. A suo modo era un circo in cui voci e gesti si sovrapponevano. Il numero delle aziende quotate era inversamente proporzionale al chiasso degli operatori nel richiederle. Ma cresceva. E con esso anche il borsino milanese che - passo passo - si era mangiato le sue più piccole sorelline d'Italia. Milano stava diventando la capitale finanziaria oltre che morale, mettendo insieme due concetti che più antitetici non potevano essere.
A Palazzo Broggi che aveva visto scorrere lacrime e sangue in quel giovedì nero del 24 ottobre 1929 non fu concessa la gioia del Boom. La crisi di fine anni Trenta non aveva arrestato nuovi ingressi di aziende e nel '32 il trasloco divenne urgente quanto necessario. Altri cento passi e la Borsa si trasferiva in piazza Affari. Si ammutolirono gli spazi. Si azzerarono i decibel. Scomparì l'andirivieni ansioso di chi voleva sapere se, quella mattina, era ricco o povero. E fu la pace.
I bigliettoni però continuarono a entrare. E in qualche caso a uscire. Spariti stock exchange, trend, mib, blue chips e altri geroglifici con cui i volgari numeri si travestono da rispettabili parole, a farla da padroni erano ora timbri e francobolli. Pacchi pacchetti pacchettini. E naturalmente anziani in coda per ritirare la minima. Fin quando non sono stati sostituiti dall'accredito telematico che ha allontanato pure ladruncoli e rapinatori. Anche i pensionati non erano più quelli di una volta. Ora navigano. Un po' come Achab, un po' come Moby Dick.
Nei saloni di Poste ormai disabitate rimbombava l'eco del vuoto. Oceano del nulla. Silenzio di abissi da dove è riemerso quel capitano di coperta. Starbuck. Stavolta arricchito da una misteriosa esse in più. A donargliela sono stati un insegnante di inglese, uno di storia e uno scrittore, fondatori di una catena di caffetterie nata a Seattle nel 1971 e oggi in ogni angolo del pianeta. Italia compresa. Unica patria e culla del caffè. Il merito è di Howard Schultz, il manager che ha trasformato in impresa la favola del terzetto che ha inventato Starbucks. Una fiaba. Una storia. Forse una finta.
«Le parole che iniziano con St hanno più grinta» dissero loro i pubblicitari. E dalla memoria spuntò Starbo, nella Catena delle Cascate, vicino Seattle, dove tutto cominciò. Dove i marinai del capitano Achab non arrivarono mai. Nemmeno per magia. Anche se è bello pensare che sia così.
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