Lo stile non è qualcosa di innato, lo si conquista con lo studio, col lavoro e con l'onestà intellettuale. Le Belle Bandiere sono, da tempo, una realtà nel panorama del teatro italiano, il progetto,la elaborazione drammaturgica di Elena Bucci e Marco Sgrosso di L'anima buona del Sezuan sono la conferma dello stile della Compagnia, conquistato sul campo, uno stile capace di far convivere la tradizione con una lettura moderna dei classici, essendo, questa, il risultato di un approfondimento critico che ha trovato la sua realizzazione in una personale lingua scenica, quella che costituisce, appunto, lo stile, come conseguenza di un codificato lavoro di ricerca. La scelta di Brecht, di un testo che ha illustri precedenti, che ho visto nelle due edizioni di Besson, quella tedesca (1972), al Lirico di Milano, quella con Valeria Moriconi, l'anno successivo, e ancora nelle messinscene di Strehler( 1981), con Andrea Jonasson e Massimo Ranieri, e di Bruni-De Capitani (1995), con Mariangela Melato, è stata una scelta temeraria, visti i precedenti. Bucci-Sgrosso amano la temerarietà che, forse, hanno ereditato dal loro maestro Leo De Berardinis, a cui è stato dedicato lo spettacolo. C'è da dire che questa messinscena risponde allo spirito del nostro tempo, caratterizzato dalla disuguaglinza sociale, sulla quale si sono espressi economisti come Anthony Atkinson e Thomas Pikett i quali, chiedendosi cosa fare per arginarla, non sono riusciti a trovare dei rimedi. Neanche Brecht sapeva cosa fare, per questo ricorse alla parabola, il genere utilizzato dai Vangeli e dagli scrittori cristiani. Egli era ben consapevole che il mondo dei ricchi che ambiscono a diventare sempre pià ricchi, crede di contrastare la povertà ricorrendo alle anime buone che vivono all'oscuro del Capitale e dei crimini dell'economia. La parabola, costruita sulla verosimiglianza, per illustrare un insegnamento morale, era adatta per portare in scena il rapporto tra bene e male, tra vero e falso, solo che occorreva trovare un linguaggio scenico per realizzarla. Ho citato alcune messe in scene esemplari, perché quella di Bucci- Sgrosso mi ha fatto pensare a quella «povera», ma ricca di pensiero di Besson, anche per l'uso delle maschere che, nell'edizione della Wolksbune, erano di stoffa e, soprattutto, alquanto caricaturali, come lo sono quelle dell'edizione, vista al Comunale di Russi, in particolare, quelle delle tre divinità che nulla hanno a che fare con la metafisica, essendo la proiezione della nostra malvagità camuffata di bontà, specie quando credono che possa bastare una somma di denaro per poter costruire una nuova vita, lontana dalla degradazione a cui ti costringe la società opulenta. Elena Bucci, che interpretra la prostituta redenta, sa che, per difendersi da coloro che approfittano della generosità altrui, ha bisogno di sdoppiarsi in un personaggio temibile e privo di scrupoli, lo fa col semplice cambio dei costumi, il bianco per il bene, il nero, per il male. La sua interpretazione tende alla semplicità, priva di ogni virtuosismo, utilizza il suo doppio semplicemente per sfuggire allo sfruttamento, mentre l'acquaiolo e l'aviatore di Sgrosso fanno, dello sdoppiamento, un esercizio di stile.
Dicevo della semplicità della realizzazione, ben evidenziata da una pedana e da tre palchetti, dove avvengono le azioni dei nove interpreti, con costumi che rimandano a una Cina da favola, e dove si muove anche Christian Ravaglioli che esegue le musiche di scena. Teatro esaurito, pubblico attento, consapevole di vivere in un mondo dove anche la bontà viene mercificata e dove si cerca, con la retorica, di estirpare il male.
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