Delitto di via Muratori I killer hanno ucciso per un debito di droga

Delitto di via Muratori I killer hanno ucciso per un debito di droga

Quello di Carolina Payano Ortiz su Facebook, il 27 agosto dell'anno scorso (14 giorni prima di morire) non era un semplice sfogo. «Sono stanca di essere buona e sopportare, non ce la faccio più. Che se ne vadano al diavolo!». E ancora: «È vero, me ne voglio andare al mio Paese e dimenticarmi di questa gente diabolica». Grazie a conoscenze «giuste», a un giro molto sporco ma altamente redditizio che portava soldi facili, la dominicana 21enne e il marito italiano di 43 anni, Massimiliano «Max» Spelta, forse si erano illusi di essere entrati a far parte ormai a pieno titolo della Milano del crimine che conta. Il traffico di cocaina nel quale si erano inseriti, a fianco di malavitosi veri e senza il minimo scrupolo, non stava dando gli effetti desiderati? E Max e Carolina si erano messi a insistere, minacciare. Esasperanti. Eccessivi. Sempre lì a lamentarsi. A insistere che loro «dovevano essere pagati» per quella partita da un chilo e mezzo di cocaina che, rischiando personalmente, avevano fatto arrivare da Santo Domingo. E con quella insistenza hanno firmato la loro condanna a morte.
Per mesi si è pensato che l'omicidio della coppia - giustiziata come in un vero e proprio regolamento di conti in mezzo alla strada in via Muratori e davanti alla loro bambina di neanche 2 anni il 10 settembre di un anno fa - fosse da ricondurre a una questione che riguardava gli stupefacenti. Tuttavia c'è stato stupore ieri mattina, in questura, quando gli investigatori della sezione omicidi della squadra mobile hanno spiegato che gli Spelta non dovevano denaro ai loro assassini bensì erano loro stessi i creditori. A decidere e a realizzare l'esecuzione della coppia sono stati infatti due pregiudicati calabresi - il 54enne Mario Mafodda e Carmine Alvaro, 41 anni - con i quali Max e Carol aveva osato alzare la voce. Senza realizzare, ingenui, che si erano «messi in affari» niente meno che con Mafodda, conosciuto come «il boss della Riviera» per la sua lunga militanza nella fila della malavita tra Arma di Taggia e Sanremo. Il suo nome e quello dei suoi parenti più stretti, ricorre da trentacinque anni nelle cronache della malavita italiana. Lui stesso è stato in carcere dal 1986 al 2011, come ha spiegato ieri il dirigente della Mobile Alessandro Giuliano. Mafodda è da sempre nel giro del traffico degli stupefacenti legato alla Calabria e all'ndrangheta e, uscito dal carcere nel 2011, si era nuovamente stabilito a Milano (dove aveva fatto base in via Greppi già nel '98) riorganizzando un traffico internazionale di stupefacenti, «materia» nella quale l'uomo è un grande esperto: l'altro ieri, durante l'arresto, la polizia gli ha trovato in casa, in viale Umbria, 27 chili di cocaina.
È questo personaggio da romanzo che - confessando agli investigatori che la sera dell'omicidio la bambina non l'avrebbe «mai uccisa» - presenta la coppia ad Alvaro facendo da «garante». Al 41enne Spelta vende il famigerato chilo e mezzo di cocaina. Ma Alvaro non paga. E si lamenta che la roba è di scarsa qualità. Carolina e il marito fanno la voce grossa. Prima con Alvaro. Poi con lo stesso Mafodda. I malavitosi temporeggiano. Poi sono loro stessi a concertare ed eseguire, a bordo del famigerato scooter, l'esecuzione della coppia. «Mi avevano mancato di rispetto.

Spelta era venuto a trovarmi a casa, poi mi aveva mandato un sms che mi ha fatto imbestialire» ha spiegato serio il boss della Riviera ai poliziotti. Sette spari in via Muratori. E «finalmente» per la mala torna il silenzio.

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