"L'ho visto a casa ormai stanco ma non negava buoni consigli"

L'allievo prediletto ricorda il suo celebre Maestro

"L'ho visto a casa ormai stanco ma non negava buoni consigli"

Daniel Canzian, ultimo grande allievo di Gualtiero Marchesi e chef-patron del ristorante Daniel a Brera, quando ha visto per l'ultima volta il Maestro?

«Tre settimane fa, a casa sua. Ero andato per avere un parere su un piatto, come ho fatto in tante altre occasioni. L'ho trovato un po' stanco, ma era felicissimo per la visita. E io più di lui».

Un rapporto lunghissimo il vostro. Otto anni tra Erbusco e Milano.

«L'ho incontrato nel 2004 al Vinitaly, presentato da un suo collega Enzo De Prà - perché volevo fare un'esperienza importante fuori dal Veneto. Cinque giorni dopo ero in Franciacorta, mi ricorderò sempre la sua frase: Allora hai deciso di non fare più il cuoco e vuoi cominciare a fare cucina? Un genio».

Da semplice stagista a executive chef dell'Albereta e del Marchesino. Una grande carriera sotto il Maestro. Come ha fatto?

«Con naturalezza, salendo un gradino alla volta, grazie al suo esempio. Non l'ho visto una sola volta alzare la voce in cucina, comandava spiegando e mostrando. Forse ho avuto un solo vantaggio, comune a Lopriore, quello di sentirsi esecutori della sua filosofia. Il signor Marchesi mi diceva: Daniel, lavorare con te è bello, perché non c'è più la paternità del piatto. Ha sempre creduto nell'evoluzione della ricetta e diffidato del cuoco creativo, che si sveglia con l'Idea in testa».

Lei ha vissuto il suo ritorno a Milano, dopo il periodo in Franciacorta. Non è andata bene come i più si aspettavano.

«La sua città gli è sempre mancata, anche se l'Albereta era un posto molto bello e il locale elegante. Qui era rimasta la famiglia, c'erano l'arte e la Scala: non poteva lasciarsi scappare l'occasione di un nuovo ristorante. Certo, è stato un ritorno in tono minore rispetto alla sua grandezza».

Nel 2013, se n'è andato dal Marchesino per aprire il primo ristorante. Lui non la prese bene, sicuramente.

«Era giusto ci rimanesse male, mi dimisi nel modo e nel tempo sbagliato. Poi nel gennaio 2015, andai da lui con il capo cosparso di cenere perché mi ero reso conto del mio comportamento. E molto più difficile saper perdonare che avere ragione mi disse. E ci abbracciammo».

Da quel giorno, il ristorante Daniel diventò la sua seconda casa: ci siamo spesso chiesti come mai nonostante dovesse stare teoricamente in piazza della Scala, lo si incontrava nella sua sala.

«Veniva due-tre volte alla settimana, a servizio già iniziato. Rigorosamente in auto, sempre in giacca e cravatta. Si metteva al bancone dicendo che non aveva fame ed era venuto per una tisana. Se incontrava qualche cliente interessante, si metteva a parlare di tutto con lui, anche per ore. Affascinava qualsiasi persona le donne in particolare - comprese quelle che manco lo avevano mai incontrato».

Dopo la tisana, però...

«Gustava il mio brodo di pomodoro perché gli piaceva molto, poi quello di gallina aromatizzato agli agrumi e iniziava a chiedere un cucchiaio di un piatto e una forchettata dell'altro. Curioso e gentile. Era bellissimo (e si commuove)».

Non ci ha detto perché veniva: solo per amicizia?

«La cucina è niente se non la puoi condividere con persone che parlano lo stesso linguaggio. Da noi si trovava bene, tutto qui. Un giorno seppi da una persona che aveva detto: Daniel può fare un piatto che non va bene per la mia idea di cucina ma siccome l'ha fatto lui, io mi fido e quindi va bene. Il massimo, credo».

I suoi ragazzi' si rendevano conto di cucinare per il Mito?

«Ho il telefono rovente perché mi stanno chiamando tutti, per un saluto e per ricordarlo insieme.

Per la brigata come per me lui era e resterà sempre il signor Marchesi. Quello che mi diceva, come io ripeto a loro, che l'esempio è la miglior forma d'insegnamento. Oggi si riapre ma sono tristissimo pensando che stasera non lo vedrò al bancone, con il solito sorriso».

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