Le mani delle "Carote Rosse" su Milano e sulla mafia cinese

Dalle strade attorno a Paolo Sarpi, in via Aleardi, in via Rosmini e in via Lomazzo, si sviluppa oggi la criminalità cinese, muovendosi soprattutto all’interno della stessa comunità

Le mani delle "Carote Rosse" su Milano e sulla mafia cinese

«Ma lo sai che in Cina c’è la pena di morte? Le forze dell’ordine ti uccidono per stupro, per furto, per evasione fiscale. Ti uccidono anche se ti trovano con più di 50 grammi di droga. La droga in Cina non è proprio tollerata. Anzi, dopo averti ucciso, obbligano pure la tua famiglia a pagare il costo della pallottola. E il governo italiano lo sa: è per questo che, dopo gli arresti del 2009, nessuno è stato rispedito in Cina: sapevano che lì sarebbero stati condannati a morte. E i cinesi, di questo, si approfittano. La prigione italiana, in confronto, è un paradiso: vitto e alloggio gratis, contributi per piccoli lavoretti, impari la lingua… La giustizia italiana non fa paura». A parlare è Weymi, cinese di 35 anni, residente a Milano da quando ne aveva 8.

La Chinatown dei lavoratori e dei malavitosi

Secondo le statistiche del 1° gennaio 2018, su 459.109 stranieri residenti nella provincia di Milano, 38.702 sono cinesi. L’8,4%. I dati demografici sono in continua evoluzione, ma la parte più ampia della comunità è originaria dello Zhejiang, la regione più povera, quella dei contadini. I cinesi più ricchi, invece, vengono da Shangai, ma raramente amano avere a che fare con i primi. Weymi ci spiega che «Paolo Sarpi un tempo era la via delle boutique italiane, poi diventò la base per i laboratori di cravatte cinesi. La zona era quasi completamente vuota e offriva prezzi decisamente a buon mercato per i negozi e per i nuovi immigrati alla ricerca di una casa e un lavoro». E proprio dalle strade attorno a Paolo Sarpi, in via Aleardi, in via Rosmini e in via Lomazzo, si sviluppa oggi la criminalità cinese, muovendosi soprattutto all’interno della stessa comunità. «I cinesi non vengono ghettizzati. Si ghettizzano da soli. Lo si vede anche nella malavita, che coinvolge solo la comunità cinese e quasi mai quella italiana», continua Weymi. Di mafia nella Chinatown milanese si parla da tempo: delle piccole gang delinquenti, delle estorsioni ai danni di altri connazionali, delle contraffazioni, della prostituzione, e poi della droga. «La criminalità cinese sul nostro territorio, in realtà, si è trasformata, specialmente per quanto riguarda lo spaccio di stupefacenti», dicono in questura. Sì, le cose sono cambiate dai tempi di Diesel, di Hu Libin, delle Carote Rosse.

Dal 2009 al 2014: Diesel, Hu Libin e le Carote Rosse

Per capire l’evoluzione della malavita cinese a Milano bisogna tornare perlomeno al 2009, quando la questura di Milano, con l’operazione Aquila Nera, ha azzerato il gruppo criminale cinese che faceva capo a Diesel, il boss che tutti i lunedì sera affittava il locale Codice a Barre, sui Navigli, trasformandolo in una discoteca in cui venivano vendute ecstasy e ketamina. Al Codice a Barre si accedeva solo con documento d’identità cinese. «Era sempre il gruppo più forte ad affittare il locale del lunedì sera», spiega il luogotenente dei carabinieri. È stato il sodalizio di Hu Libin, con la sua discoteca Parenthesis di via Gargano, a farla da padrone dopo quello di Diesel, ma solo per poco. Hu Libin, 22 anni, è stato ucciso il 24 febbraio 2009 a colpi di machete e spranghe di ferro dai gangster del gruppo di Brescia, le Carote Rosse. Altri cinque sono stati feriti con tagli profondi alla testa e al torace, per ragioni da ricondurre, semplicemente, al controllo di un mercato: quello della vendita di ecstasy e ketamina ai frequentatori, tutti cinesi, delle discoteche del lunedì sera. Proprio lo spaccio di droga, insieme alla prostituzione, era l’attività principale attraverso cui il gruppo si finanziava e che offriva ai suoi affiliati la possibilità di un piccolo stipendio, di un vitto e di un alloggio gratuiti. Le Carote Rosse di Brescia hanno poi cominciato ad affittare ogni lunedì sera quello che allora era il Caffè Iguana, in viale Papiniano 59, che oggi non esiste più. Era da qui che arrivavano i proventi delle attività illecite, le stesse attività che hanno presto portato ad un aumento spropositato del numero di risse e, infine, a 18 fermi e 6 condanne a 26 anni di detenzione nel settembre 2009. Insieme a loro, tra 2009 e 2011, circa 150 ragazzi cinesi fra i 18 e i 25 anni sono finiti nel carcere di San Vittore per spaccio, ma anche prostituzione e omicidio. Racconta ancora Weymi: «Proprio a San Vittore, mi diceva qualcuno un po’ di tempo fa, avevano dovuto assumere un cuoco del Sichuan, perché i detenuti cinesi si rifiutavano di mangiare italiano», ma forse è un’altra di quelle leggende che girano attorno ai cinesi.

Dal 2014 ad oggi: il cambio di rotta nella criminalità organizzata

A partire dal 2014, la criminalità cinese, ormai troppo nell’occhio del ciclone, ha cominciato a muoversi verso altre direzioni. Le discoteche, l’ecstasy e la ketamina non funzionano più, le richieste di estorsione sono diminuite, è iniziata l’era dei karaoke e di una nuova droga: la shaboo, o metamfetamina, acquistata in Polonia per 20 € al grammo e rivenduta a 100 € ai cinesi in Italia e per tre volte tanto ai filippini, unici acquirenti al di fuori della comunità di connazionali. Nel 2016, una nuova operazione della questura di Milano soprannominata An Mo Dian – “negozio di massaggi” in cinese – ha eliminato un’altra gang di Chinatown. Il boss, in questo caso, si chiamava A Dong e la droga veniva venduta nel karaoke di via Signorelli. La mafia della metamfetamina è tuttora attiva, così come sopravvivono i reati di prostituzione, di estorsione, di usura, di riciclaggio, benché in forme più blande rispetto a dieci anni fa. Nessuna sorpresa, in fondo, se si pensa che, secondo un detto cinese, “la legge italiana è testa di tigre e coda di serpente”: sembra forte, ma poi, tra un cavillo e l’altro, si riduce in niente – anche questo ce lo raccontano in questura. La comunità cinese in arrivo in Italia sta cambiando.

La Cina è oggi molto più ricca di un tempo e i ragazzi vengono qui per studiare moda, design, arte, per acquisire un nuovo know-how da mettere a frutto una volta a casa. Mentre studiano, poi, capita anche che approfittino di un mercato parallelo Made in Italy che, nel Belpaese, costa molto meno e che possono rivendere in Cina a prezzi nettamente più alti. Ma questa è un’altra storia.

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