Aveva nove anni e la guerra era finita da un attimo. Il dramma di piazza Loreto era dall'altra parte di Milano. E il popolino festeggiava la Liberazione coprendo con oltraggio salivare i corpi morti dei gerarchi. Del Duce. Di Claretta. L'innocente che morì per amore. Come Luisa Ferida. Come le donne che mai abbandonarono gli uomini del loro cuore. Al Ticinese quelle urla di dileggio non arrivarono. E lei, la piccola Carla, a nove anni, la bufera bellica la vide con gli occhi di una bimba che stringeva la mano del suo papà. Luigi, che di mestiere guidava il 23, un giorno promise di portarla nel bosco. Ma la sua foresta era fatta d'acciaio.
«Ci sono alberi altissimi - le disse lui - con fronde che s'intrecciano. Ruscelli d'argento, luminosi, li attraversano. È bellissimo, vedrai». Lei chiuse gli occhi e si fidò del suo papà. Gli saltò in braccio giuliva e si lasciò portare, chiedendosi dove mai si trovasse un bosco nel centro di Milano. Azzardò il dubbio. Infantile perplessità di saggezza. «Eddai papà, ho nove anni. Non credo più alle favole».
Si sentiva già grande la piccina. Almeno per quei racconti edulcorati che sapevano di sogno. Ma anche un po' di imbroglio. Lui non si sforzò di convincerla e le chiese solo di chiudere gli occhi. Se la mise a cavalcioni sulle spalle come si usava allora, andando nel bosco. E Carlina fece tutta la strada lassù, senza poter guardare. Senza voler guardare. Decise di fidarsi. E rinunciò a vedere dall'alto di quei due metri d'altezza la città che aveva visto ogni giorno dal suo metro di bambina.
Non sollevò mai le palpebre. Teneva una manina sopra per essere sicura di non tradire il suo papà. Fu fiducia cieca. Appoggiò la guancia alla giacca ruvida ripensando a quella storia di boschi e ruscelli in mezzo a una metropoli ferita. Appoggiò la guancia alla giacca ruvida assaggiando il profumo della sorpresa. Le piaceva l'improvvisata. Luigi camminava orgoglioso con quella bimba in spalla, leggera come una piuma. Dolce come il miele.
Rimase così anche quando entrarono in deposito. Uno stanzone infinito dove le parole si perdevano. Eco ruspante di ferraglia. Era in piedi da meno di mezzo secolo, ma lei non lo sapeva. E forse non le interessava. Era appartenuta alla società degli omnibus, poi alla Edison. Era appartenuta a una famiglia ricca, i Confalonieri, gente che non era più contadina e aspirava a diventare latifondista. L'avevano attraversata rogge utili a irrigare i campi. Là, fuori porta. Foppa e Stadera, nomi che avrebbero ispirato quartieri. Nomi di oggi.
La bambina continuò a tenere gli occhi chiusi anche quando sentì la voce del Mario. E forse capì che lei e il suo papà non erano ancora entrati nel bosco. «Cosa ci fai con il vestito della festa...» esplose meravigliato il collega. Mentre Luigi abbozzò una spiegazione, Carla capì che il suo papà l'aveva portata in un posto che contava. Sentì un odore acre pungerle le narici e moriva dalla voglia di vedere la faccia del Mario. Ma tenne gli occhi chiusi per non fare uno sgarbo a papà.
Le voci cessarono. I passi continuarono.
Finché ogni suono si perse nel vento. E il rimbombo di sillabe vagabonde tornò a farsi vivo. Finché papà Luigi le disse finalmente. «Piccola, puoi aprire gli occhi». Carla obbedì. Non era stata imbrogliata. Impiegò qualche attimo ad ambientarsi. A riconoscere che sì, sembrava una foresta. Anche se i tronchi erano di cemento e i rami di acciaio. Ma il sole era comunque giallo e filtrava dalle vetrate dei tetti invece che dall'intrico del fogliame. E l'accavallarsi di scambi luccicanti, a suo modo ricordava ruscelli stilizzati. La bambina strillò di felicità e iniziò a saltellare. Girava su se stessa con improvvise piroette. Saltava le traversine a grandi balzi stando attenta a non inciampare. Alzava e muoveva le braccia.
Come fossero girandole. Danzava sulle punte intorno ai pilastri. Ballava e rideva. «La par nanca la tosa d'un tranvé. Se la va avanti inscì la va a ballà a la Scala» disse il Mario.Quella bambina si chiamava Carla Fracci.
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