Va bene l'attenzione per le periferie, dove il sindaco deve recuperare un bel po' di consenso alla luce sia del voto delle comunali che del referendum costituzionale, ma questa «ossessione», come la chiama lui, pare gli abbia fatto dimenticare un'altra priorità per i milanesi: le tasse. Un tema toccato più volte in campagna elettorale, un nervo scoperto della giunta Pisapia per il quale Giuseppe Sala si era trovato a competere con un attento e liberale Stefano Parisi. Tanto che uno dei punti qualificanti del programma dell'attuale sindaco era proprio questo: «Riduzione selettiva del carico fiscale locale a vantaggio dei redditi bassi, dei comportamenti positivi e delle attività produttive virtuose o in crisi» con un contestuale «aumento degli spazi di autonomia fiscale per il Comune e per la Città metropolitana». Il tutto da concretizzare, come aveva annunciato in pompa magna con l'allora vicesindaco e assessore al Bilancio Francesca Balzani (tra l'altro responsabile di un aumento delle tasse durante la giunta arancione del 300 per cento), in un investimento da 40 milioni di euro finalizzato all'innalzamento della soglia di esenzione dell'addizionale Irpef da 21 a 28mila euro, alla riduzione del carico fiscale per gli esercizi commerciali interessati dai cantieri, per i negozi di vicinato nei quartieri più a rischio e per le start up. Troppo poco, anche perché i numeri, ad oggi, sono sconfortanti. Milano, insieme a Roma, è la città italiana con l'addizionale Irpef più elevata: 143 euro pro capite, il 450 per cento in più rispetto ai tempi della giunta Moratti. Poi ci sono l'Imu e la Tasi (venerdì scadono i termini per pagare il saldo): secondo uno studio di Confartigianato citato nello stesso programma del sindaco, l'aliquota media sugli immobili produttivi è pari al 10,2 per mille, il valore più alto di tutte le province lombarde, il venticinquesimo a livello nazionale su 104 province.
Almeno in campagna elettorale, però, se ne parlava. Ma dev'essere dopo la doccia fredda arrivata con l'ingresso a Palazzo Marino dell'assessore al Bilancio Roberto Tasca, che Sala ha deciso, per il momento, di mettere il silenziatore: per portare a termine quanto annunciato, ci vorranno non meno di tre anni. Sempre che da Palazzo Chigi arrivino i finanziamenti e sempre che, come nelle speranze di un Beppe in versione leghista, si riesca ad ottenere per il capoluogo lombardo una maggiore autonomia fiscale dalla Capitale. Condizioni alquanto difficili, vista l'instabilità che si respira a Roma, dove le priorità sono altre rispetto agli slogan e alle promesse renziane di una Milano al centro del Paese. Se poi si guarda il trend di questi anni, c'è ben poco da essere ottimisti: si è passati dai 775 milioni di euro che nel 2011 Stato e Regione concedevano alle casse del Comune, ai 475 milioni del 2015. Il piatto piange e, visto l'andazzo del nuovo governo, probabile che la situazione non migliori. Ed è così che si spiega l'assenza di una questione centrale dalle slide che recentemente Beppe Sala ha proiettato insieme ad alcuni suoi assessori per illustrare il suo libro dei sogni per i prossimi anni. Peccato, perché nonostante abbia puntualizzato che non si sarebbe potuto parlare di tutti gli interventi da portare avanti nel corso del mandato, un accenno alla pressione fiscale andava fatto.
Perché Milano ha sì la necessità di accorciare il divario tra il centro di Milano e le sue periferie, ma ha anche bisogno di dare una spinta allo sviluppo. Una leva che si può attivare solo tramite una riduzione della pressione fiscale. Non solo sui redditi bassi, ma soprattutto sul ceto medio, il vero motore della città.
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