«Voglio fare di tutto, ballare, cantare, scrivere, recitare, fare il cinema, il teatro, la poesia, voglio esprimermi con tutti i mezzi, ma voglio farlo da pittore perchè dipingere non è un modo di fare ma un modo di essere». L'autodescrizione di Renato Mambor, uno dei protagonisti della stagione concettuale italiana degli anni Settanta, ricordano le parole di Dino Buzzati che odiava le classificazioni: «Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa - diceva - perchè ciò che mi sta a cuore e raccontare delle storie». E forse mai come nel ventennio tra i '50 e i '70, artisti e pubblico amavano fondersi in quell'«arte totale» che in Germania ebbe forse la sua punta più estrema in Joseph Beuys. Mambor, a cui la Galleria Gruppo Credito Valtellinese dedica una degna antologica, è invece chiara espressione di quella generazione di artisti prodotti dalla cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, nel periodo in cui la capitale era territorio di fermento grazie a gallerie di ricerca come la Tartaruga di Plinio de Martiis. Dallo spazio di in via del Babuino 196 passarono o decollarono alcuni tra i maggiori artisti italiani del Dopoguerra, come Lucio Fontana, Mino Maccari, Mario Mafai, Mimmo Rotella, Giuseppe Santomaso, Mario Schifano, Tano festa Giulio Turcato, Emilio Vedova. E tra questi anche Renato Mambor, cresciuto sulle linee di confine che separavano (ma non troppo) i seguaci della Pop art italiana, i Nuovi Realisti e gli irriducibili dell'Arte Povera. In una fase di rivalutazione (anche commerciale) di molti di quegli artisti, non può che destare interesse la retrospettiva di un autore come Mambor, che ebbe un suo personalissimo percorso multitasking (si direbbe oggi) e che forse non è stato ancora sufficientemente valorizzato da pubblico e critica. A tre anni dalla sua scomparsa, la mostra curata da Dominique Stella ne mette in luce una poliedricità che lo portò a sconfinare anche nel cinema e nel teatro, con una sorta di ossessione per la soggettività e la serialità. Pittura, oggetto, fotografia e installazione si alternano e si compenetrano, ma ponendo sempre al centro lo sguardo dell'artista unico e irripetibile, rappresentato dalle inconfondibili silhouette: ora ritagliate su pannelli altezza uomo, ora ripetute nella pittura e nelle stampe. La mostra milanese ripercorre come un film l'inquieto e variegato universo di Mambor, tra immagini, sculture, installazioni e non da ultimo testimonianze fotografiche del suo teatro sperimentale. Non è un caso che la sera del vernissage sia stata accompagnata da una performance attoriale che ha visto come protagonista Paola Pitagora, compagna di vita dell'artista scomparso.
Tra le oltre 80 «connessioni invisibili» che rappresentano il suo lavoro non mancano opere storiche come «L'Evidenziatore» (1972), un oggetto tridimensionale e prensile creato dall'artista per «segnalare la realtà attraverso l'appropriazione»; oppure lavori più recenti che testimoniano l'ossessione per l'Io: come «L'Osservatore», il «Testimone oculare», il «Riflettore». Lo sguardo innanzitutto, perchè, come amava ripetere, «guardare una cosa è questione di accomodarla nel suo contesto abituale e di riconoscerla per quello che abbiamo imparato che è».
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