Tailleur, colore viola e look degni di un circo Gli scivoloni da evitare

I consigli degli stilisti per una «mise» perfetta Tutti gli errori: da Franceschini a Patty Smith

Pamela Dell'Orto

La moglie del ministro Del Rio con piumino e abito di raso (rosso). Dario Franceschini con cappotto sportivo (e pantalone troppo lungo). Patty Smith con giacca informe e anfibi. La signorina con abito da sposa in tulle. La moglie del diplomatico con pelliccia alla Crudelia De Mon. Sabina Negri con i (finti) tatuaggi. La sciura con stivale e borsa a tracolla e l'amica conciata come a carnevale. Errori (e orrori) da prima della Scala, edizione 2015.

L'elenco potrebbe continuare all'infinito se si guarda agli anni precedenti. Cofane improbabili che impediscono la visuale, abiti rosso fiamma che si confondono con le poltrone, gioielli finti spacciati per veri, look circensi, abiti troppo strizzati o vestitoni alla Rossella O'Hara, molto trucco e troppo parrucco. Oppure niente di tutto ciò, ma semplicemente tanta ostentata normalità fatta di abitini anonimi e tailleurini da ufficio. Perché, insieme agli scivoloni, alle mise esagerate e all'ostentazione più sfacciata, il vero disastro è scoppiato con la crisi, che ha imposto a tutti la sobrietà.

Per anni la parola d'ordine è stata «austerity» e in molti l'hanno mal interpretata, pensando che bastasse la prima cosa nera pescata nell'armadio. Certo, una buona parte delle habitué hanno continuato a vestire in modo impeccabile, ma la maggior parte della gente si è dimenticata di cosa rappresentano davvero questa serata e questo teatro per Milano. C'era una volta la prima dell'eleganza, con ospiti internazionali, signore con abiti lunghi impeccabili, gioielli da sogno, non un capello fuori posto, uomini con smoking dal taglio perfetto e papillon annodati a mano. Un ricordo lontano. Quest'anno per la Madama Butterfly arriveranno Juan Carlos di Spagna e Roger Moore, speriamo che riportino un po' di glamour degli anni d'oro.

«La Prima non è più l'edizione dell'eleganza. Quando la città è scesa di tono negli anni della crisi, tutto ciò che implicava uno sfoggio è stato livellato verso il basso. Anche per non dar nell'occhio, si sono adeguati tutti all'understatement», dice la stilista Luisa Beccaria. «Ora Milano è in rinascita, e all'estero è percepita come una città cult, un piccolo centro di eccellenza. La Scala è famosa nel mondo perché pensano che Milano sia la culla di tutta l'eleganza italiana, e gli stranieri quando vanno a vedere l'opera si vestono alla perfezione. I milanesi non più». Come fare allora? «Farei in modo di attirare grossi personaggi internazionali, ora manca il pubblico e manca la rappresentazione del teatro nel teatro. Il vestito è il campanello d'allarme che fa capire che siamo sulla strada sbagliata». Ma dato che l'abito fa il monaco, cerchiamo (almeno) di evitare gli scivoloni. «L'errore più grande è la mancanza di armonia», dice lo stilista Federico Sangalli, «manca molto senso delle proporzioni, spesso si va contro il senso estetico». Un esempio? «Una signora completamente sbilanciata da una gonna con una piega enorme sul davanti». Le regole di base le elenca la stilista Raffaella Curiel: «L'abito non deve essere né viola né rosso. Il viola perché è una superstizione della gente di teatro: nei secoli passati durante la Quaresima i paramenti della chiesa erano viola e gli spettacoli erano sospesi». E il rosso? «Perché si confonde con il bordeaux della poltrone». Altre regole? «Sono questione di educazione», aggiunge Luisa Beccaria: «Non si deve essere troppo gonfie perché si occupa la sedia del vicino, né troppo cotonate perché si impedisce la visuale di chi ci siede dietro».

Sbaglia anche chi crede che il lungo sia out: il lungo è d'obbligo, come per l'uomo è obbligatorio lo smoking, l'importante è che sia di qualità.

«Basta con gli abiti da poco di chiara matrice cinese spacciati per lussuosi», conclude Sangalli. Infondo solo Marta Marzotto riusciva a indossare gioielli finti comprati a Chinatown a 5 euro senza perdere un briciolo della sua leggendaria classe.

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