Vanno in scena le Barzellette di Celestini «La più bella deve essere ancora inventata»

L'autore regista: «Ne racconto una quarantina poi una storia le delimita»

Antonio Bozzo

Piccolo dramma non capire una barzelletta e aver voglia di sprofondare dalla vergogna, mentre gli altri ridono a crepapelle.

«Succede - dice Ascanio Celestini - Quando non si capiscono vuol dire che non si è accettato il gioco. La barzelletta è un patto, con sue regole. Un perimetro dentro il quale muoversi. È letteratura orale di cui da sempre faccio incetta. Di barzellette è pieno il mio libro uscito da Einaudi un anno fa, ora diventato spettacolo, con ovvie variazioni rispetto alla pagina scritta». Il monologo del romano Celestini è da stasera a domenica al Carcano. Titolo «Barzellette», così tutti sanno che non c'è da offendersi se qualcuno si sentisse toccato nella propria sensibilità. «La barzelletta è irriverente di natura. Può dire cose orrende. Se si smette di raccontarla prima del finale liberatorio può essere scambiata per offesa grave, da punire. A me è capitato di scatenare reazioni violente raccontandole per intero, ma è un'altra storia».

Chi segue Celestini dirà: che c'entra Ascanio con i re delle barzellette come Bramieri, Dapporto, Proietti, Chiari e altri nomi d'oro? «Chiari la tirava alle lunghe, sotto la camera fissa della tv. Bramieri bastava vederlo entrare in palcoscenico per immaginare l'arrivo delle ballerine. Dapporto era un maestro. Tutti interpreti di un teatro schietto e popolare: non so se la differenza con il teatro di Carmelo Bene, faccio per dire, sia poi così marcata. Il mio spettacolo non è però un semplice repertorio di barzellette. Ne racconto una quarantina, ma c'è una storia che le delimita: un ferroviere raccoglie barzellette tra i viaggiatori per raccontarle al capostazione. O forse a un uomo con una funzione particolare - c'è chi fa mestieri ingrati ma necessari - incaricato di occuparsi proprio... Non dico di più».

Celestini confessa di non sapere se nel mondo orientale - Cina, India, Giappone - le barzellette siano diffuse come in Occidente. «Grazie allo scrittore Paolo Nori ho però scoperto la vivacità della Russia, anche quando era Unione Sovietica. C'era qualcosa di più cupo della Mosca comunista? E invece no, si rideva eccome, del potere e dei difetti nazionali». Forse, diciamo noi, anche grazie allo spirito ebraico, che tanto influsso ha avuto e ha nel grande Paese slavo. «Gli ebrei sono fabbricatori di barzellette. Freud, non certo un umorista, scrisse un saggio sul motto di spirito, paragonandolo al sogno e al lapsus. Gli ebrei sanno scherzare persino sull'Olocausto. Ma mi è successo di irritarli, e molto, raccontando storielle, nonostante mettessi avanti nomi apprezzati come Moni Ovadia. Achille Campanile, nel suo trattato sulle barzellette, scrisse che vanno sempre raccontate fino al termine, anche se chi ascolta si sta offendendo.

Basta poi scuotere la testa e aggiungere, dice Campanile, la seguente considerazione: «Pensare che c'è ancora gente che ride per queste scemenze», e la tensione svanisce. La barzelletta più bella del mondo?

«Deve ancora essere inventata. Le barzellette sono come gli scacchi: un gioco la cui partita più bella non è ancora stata disputata».

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