"Una vita da flipper con l'amore per l'arte"

L'ex campione rossonero Oscar Damiani: «Quanti successi in campo e come procuratore. Ma ora vado di più alle mostre»

"Una vita da flipper con l'amore per l'arte"

«Ormai, mi occupo più d'arte». Oscar Damiani (Brescia, 15 giugno 1950), uomo e calciatore raffinato, è cresciuto nel settore giovanile dell'Inter, senza mai indossare la maglia nerazzurra. Lo ha fatto nel Milan 1982-84: 68 presenze, 23 gol. È tra i procuratori italiani più importanti.

Innanzitutto non si chiama Oscar.

«All'anagrafe sono Giuseppe. I miei, bresciani, erano emigrati in Svizzera, a Couvet paesino nel cantone francese di Neuchatel, da cui la mia erre moscia imparata sui banchi di scuola. Vollero farmi nascere in Italia e tornarono. Il prete si oppose a Oscar. Non è il nome di un santo. Così presi quello di uno zio. Poi ho chiamato Oscar mio figlio. Una belinata, spesso ci confondono».

Primi calci al pallone?

«Nel Couvet. Volevo fare il portiere, ma il mio allenatore mi disse che non avevo il fisico».

Però, alla fine, in porta c'è andato.

«Sì, nel mio ultimo campionato con la Lazio, 1985-86. A Catania Malgioglio, il titolare, venne espulso. Erano finiti i cambi e tra i pali mi misi io. Mancavano sette minuti e non presi gol. Una soddisfazione».

Torniamo agli esordi.

«Prima partita con il Couvet: 14-1 per gli avversari, ma il gol lo segno io. Nel 1962 la famiglia torna in Italia. A Brescia ho giocato nella Viando Plodari che andava forte a quei tempi».

A 17 anni la chiama l'Inter.

«Arrivo a Milano e comincia una grande amicizia con Mauro Bellugi: campioni italiani Primavera insieme. Al mattino lavoravo nell'azienda di un dirigente, riempiendo contenitori con olio industriale per 10mila lire; al pomeriggio allenamento. L'Inter me ne dava 20mila. Mandavo i soldi a casa».

In quei giorni nasce il soprannome «flipper».

«Me lo diede Invernizzi, allenatore delle giovanili. Passavo tanto tempo al bar sotto il pensionato al flipper, appunto, e in campo facevo una finta, passandomi il pallone da un piede all'altro. Proprio come gli omini del flipper».

Ma con l'Inter non disputa neanche una partita.

«Andai in prestito a Vicenza che poi mi riscattò. Ho passato tre anni con il grande Giussy Farina che mi rivolle al Milan anni '80. Persona straordinaria. Voleva bene ai suoi calciatori, io divenni un amico di famiglia. Trascorrevo molto tempo a Palù, nella sua riserva di caccia. Non ero cacciatore ma lo seguivo. Un'esperienza».

E a vent'anni, a Vicenza, cominciò la sua vita di collezionista d'arte.

«Acquistai un Sironi. Mi costò un mese di stipendio, ma lo vidi a una mostra e provai l'impulso averlo. La passione è nata così. Poi ho cominciato a frequentare gallerie, mi sono fatto una cultura personale, studiando e fidandomi dei consigli di grandi galleristi come Lia Rumma, Mazzoleni, Tornabuoni, Cardi».

Maturava anche un particolare gusto nel vestire.

«Negli anni 70 giravo in pelliccia di lupo, con i pantaloni infilati negli stivali. Mi piaceva avere uno stile mio. È lo stesso percorso dell'arte che è qualcosa di intimo. Portavo il cappotto lungo e Brera scrisse: Damiani è maxi nel cappotto ma è mini in campo. Non mi sono mai fatto condizionare dagli altri ma da quello che piaceva a me. Mettevo una cosa per un piacere intimo, non per moda, non per apparire».

Nel frattempo, come un flipper, girava l'Italia.

«Vicenza, Napoli, di nuovo Vicenza, Juventus, dove ho vinto il campionato. Causio mezzala, io ala. Poi è arrivato Trapattoni, un allenatore cauto e ha detto: Causio ala, Damiani riserva. Io la riserva non l'ho mai fatta e sono andato al Genoa: con Pruzzo abbiamo fatto 29 gol in due, quanti Boninsegna e Bettega con la Juve. Che giocatore, o Rei, taciturno ma di un'intelligenza tattica mostruosa, forse non il più grande con cui ho giocato, però quello con cui mi sono trovato meglio».

E nel 1982 San Siro diventa la casa sua.

«Sono arrivato con il Milan in serie B, abbiamo vinto il campionato, poi ho fatto un altro anno ma ormai ero a fine carriera. Ho giocato ancora per divertimento, allora arrivare a 36 anni era un'impresa, c'era chi smetteva a 31. Ma la maglia del Milan mi è rimasta addosso, anche perché, da procuratore, le soddisfazioni migliori le ho avute con Galliani e Braida».

Riassunto di una carriera.

«Sono stato un buon giocatore, ma da procuratore sono stato ottimo. Ho gestito molti grandi calciatori, tra cui 4 palloni d'oro: Papin, Zidane, Shevchenko e George Weah, ora presidente della Liberia. Con lui e con Lilian Thuram, sono rimasto molto legato».

Mai pensato di fare l'allenatore?

«Mai. Dopo 11 squadre ero stanco di traslochi. I miei figli hanno frequentato le elementari in cinque città diverse. Volevo fermarmi: ho scelto Monza. Da agente giravo per partite, tre, quattro la settimana. Ora mi manca. Nel 2020 ho visto più mostre che gare».

Lei ha scritto un libro bellissimo curato da Angela Faravelli per la parte artistica e da Alberto Cerruti per quella calcistica: L'arte nel pallone, Chimera edizioni. C'è la sua storia, le sue passioni, ci sono i suoi quadri. Ma quanti sono? Ha un museo per ospitarli tutti?

(ride) «Sono 100, dispersi nelle mie varie case. I quadri sono tutti i miei averi, con auto e vestiti. In banca non ho niente».

Il quadro da cui non si separerà mai?

«Fontana. Ha fatto cose figurative all'inizio, ma i tagli sono unici, come lui. È quello a cui sono più affezionato. Me lo fece conoscere Liedholm».

Un grande artista sottovalutato?

«Gino De Dominicis. Eravamo molto amici. Nel cortile di casa sua incappai in una delle sue opere più celebri: La mozzarella in carrozza. Ho un suo autoritratto, meraviglioso. Diceva di aver giocato nell'Anconitana, amava il pallone. Spesso ci siamo ritrovati a giocare alle due di notte in piazza del Popolo. Questo era Gino».

Si guardi alle spalle, ha rimpianti?

«No. Non credo a fortuna/sfortuna, ma alla voglia di sacrificarsi. E quelli che non arrivano devono evitare il vittimismo. Non porta non da nessuna parte».

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