"Mio papà Enzo non se n'è mai andato. Con musica e cabaret analizzava la vita"

Il figlio parla dell'artista a dieci anni dalla morte, nel libro "Ecco tutto qui"

"Mio papà Enzo non se n'è mai andato. Con musica e cabaret analizzava la vita"

Difficile essere figlio d'arte, ma c'è chi lo sa fare con la leggerezza e l'ironia che gli ha insegnato un genitore famoso, soprattutto se questo genitore si chiama Enzo Jannacci. Il grande Enzo è scomparso da 10 anni e il figlio Paolo continua a scrivere canzoni irriverenti, a suonare il pianoforte e a cantare con quella voce sghemba che era un marchio di fabbrica di papà. Ma a dieci anni dalla morte Paolo sente di dover celebrare Enzo, e lo fa con il libro Ecco tutto qui (scritto per Hoepli insieme al critico Enzo Gentile) e con una grande serata, programmata per il 3 giugno al Teatro Arcimboldi di Milano, dal programmatico titolo «Jannacciami», con decine di ospiti che vanno da J-Ax a Paolo Rossi tra canzoni e cabaret.

Chi era davvero Enzo Jannacci?

«Semplicemente un medico e un artista di grande sensibilità, con tutti i suoi errori e le sue problematiche che ogni tanto erano la molla delle sue intuizioni artistiche».

Le manca?

«Decisamente sì, ma posso dire che non se n'è mai andato. Mi confronto ogni giorno con la sua opera e con i suoi insegnamenti».

Quali?

«Dal punto di vista delle canzoni e del cabaret era inimitabile, ma nella vita mi ha insegnato molto. Facendo il medico ha conosciuto tutti i drammi dell'essere umano. Aveva una visione rinascimentale della vita e spesso la sua opera sviscerava i drammi sociali come avrebbe potuto fare un'analista sul suo lettino. Insomma sapeva sorridere, con intelligenza, dei guai suoi e altrui».

Com'era il vostro rapporto?

«Io ero un rompipalle, lui molto esigente, ma a un certo punto è scattato qualcosa che ci ha legato e abbiamo sempre lavorato insieme all'unisono».

Pochi sanno che Enzo era un ottimo pianista.

«Sì, sembrava che suonasse quasi a orecchio ma aveva imparato il piano jazz da giganti come Red Garland e Oscar Peterson, cui anch'io mi sono ispirato».

Era diplomato al Conservatorio.

«Sì, anche se non ho mai visto nessun diploma, un giorno andrò al Conservatorio a cercarlo».

Si può dire che suo papà sia nato con il rock?

«Era il suo pane, da ragazzo si divertiva come un pazzo a scatenarsi con Giorgio Gaber, sono stati anche al Primo Festival rock italiano, quello al Palazzo del Ghiaccio di Milano. Penso sia stato coraggioso ad abbandonare la strada più facile del rock per il cabaret, la canzone popolare con Dario Fo o addirittura il jazz quando collaborò con personaggi come Chet Baker e Gerry Mulligan».

Il suo pregio maggiore?

«Aveva degli enormi picchi emozionali che lo facevano cambiare di umore e scrivere le cose più diverse. Anche le canzoni più leggere avevano un fondo sociale, una sottile vena di sarcasmo che le pervadeva».

Il suo periodo migliore?

«Ne ha avuti parecchi. Per quello che mi riguarda la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, quando uscì Ci vuole orecchio, l'album che avrebbe dovuto intitolarsi Musical ma a cui Gino & Michele cambiarono titolo all'ultimo momento».

Un momento difficile?

«Al Festivalbar, quando portò un brano lento come La fotografia e venne fischiato».

Dal libro come esce Jannacci?

«Vulcanico nella sua solitudine e nei rapporti con i grandi come Dario Fo o Cochi e Renato; insomma è il suo ritratto».

Lo

celebrerete anche in musica.

«Il 3 giugno agli Arcimboldi di Milano. Lo spettacolo si chiama Jannacciami e ci saranno un sacco di ospiti musicali e cabarettisti: tra gli altri ELio, J-Ax, Ale & Franz, Paolo Rossi».

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