Cannibalismo forzato e fosse comuni, l'incubo senza fine della guerra in Sud Sudan

Un rapporto dell'Unione Africana ha reso pubbliche verità angoscianti sul conflitto in Sud Sudan dove dal 2013 è in corso la guerra civile, nel testo si legge di cannibalismo, esecuzioni di massa, stupri e il tutto accompagnato da una crisi umanitaria

Sfollati del Sud Sudan a Joda, al confine con il Sudan
Sfollati del Sud Sudan a Joda, al confine con il Sudan

Una ventennale guerra civile terminava, uno nuovo stato nasceva e a Juba, attuale capitale del Sud Sudan, il 9 luglio del 2011, giorno dell'indipendenza, le strade vivevano un tripudio di lirismo avveniristico. C'erano i canti e i festeggiamenti, il conflitto cessava, la nazione più giovane del mondo prendeva vita e con essa la speranza per un intero popolo di vedere così spalancarsi un domani senza guerra sino ad allora solo intramontabile utopia. Ma nello stato del Sud Sudan l'equilibrio fragile e le divisioni etniche hanno portato nel giro di un anno e mezzo allo scoppio di un nuovo scontro. I Dinka legati al presidente Salva Kiir e i Nuer invece sostenitori dell'ex presidente Riek Machar, hanno preso le armi gli uni contro gli altri. Ad oggi, la guerra insiste in tutto il Paese, una tragica contingenza di orrore perdura, i kalashnikov hanno reciso la clemenza, i machete piallato la pietà e un'inesorabile sentenza di dannazione è emersa con massimo fragore dalle pagine della relazione dell'Unione Africana pubblicata in settimana.

Leggendo il documento si scopre che una commissione d'inchiesta ha raccolto prove che certificano come da entrambe le parti, dall'inizio delle ostilità, si siano registrate violenze efferate. Fosse comuni, esecuzioni sommarie, stupri e persino testimonianze di civili che parlano di atti di cannibalismo forzato: persone costrette a bere il sangue e cibarsi delle vittime.

Un ecumenico incubo connaturato nell'esistenza di un stato: Sud Sudan, proscenio di un totalitarismo di morte e gogna della misericordia. E dall'inferno sud sudanese arriva anche la testimonianza di Tommy Simmons fondatore di Amref Health Africa-Italia, che in un comunicato pubblicato dall'organizzazione racconta: '' Nel febbraio del 2014 sono andato a Bor e ho trovato le vie vuote, le case saccheggiate, i mercati bruciati, le fosse comuni con le salme allineate dentro a sacchi bianchi, e l’odore della morte che aleggiava in più parti. L’ospedale era stato svuotato durante la prima ondata di violenza e i pochi feriti erano stati collocati in un magazzino adibito ad ospedale da campo. Gran parte degli abitanti della città erano fuggiti con i pochi averi essenziali e trasportabili e si erano rifugiati in una zona paludosa sull’altra sponda del grande fiume. Oggi, secondo le Nazioni Unite quasi un milione di persone vive in una situazione “catastrofica”, al più alto grado di emergenza alimentare. Nell’immediato, 30.000 persone stanno letteralmente per morire di fame.

'' In merito alle ultime notizie del rapporto dell'Unione Africana, Simmons poi aggiunge: ''È fondamentale rendere giustizia alle vittime di questa guerra, ma bisogna però anche, con grande urgenza, rendere giustizia ai sopravvissuti ed evitare che il numero dei caduti cresca in modo esponenziale. Nessuno vuole vedere ancora una volta le immagini di bambini scheletri che muoiono di fame; soprattutto non vogliono questa fine loro stessi''.

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