Il dilemma del Sultano

Erdogan deve affrontare elezioni cruciali, facendo leva sul ventre profondo del nazionalismo turco. Ma proprio questo sta frazionando l’Akp

Il dilemma del Sultano

Erdogan ha un problema. O, più esattamente, si trova di fronte ad un dilemma. Un bivio che, da una parte, vede l’approssimarsi delle Elezioni Politiche, che si terranno in Turchia il prossimo 13 Giugno; dall’altro vi è lo scenario internazionale, dove Ankara sembra rischiare un progressivo isolamento. E i due problemi, inevitabilmente, sono inestricabilmente intrecciati.

Ad appena un anno dalla sua, trionfale, elezione alla presidenza della Repubblica, Erdogan si trova a dover affrontare una cruciale tornata elettorale; tanto più cruciale se si pensa che il leader turco vuole fare della prossima una legislatura costituente, per trasformare radicalmente l’assetto istituzionale, portando la Turchia ad essere una Repubblica presidenziale su modello statunitense, con l’abolizione del ruolo di Primo Ministro, attualmente ricoperto da Ahmet Davutoglu. Per far questo, però, sarebbe necessaria una maggioranza parlamentare qualificata, ovvero, tradotto in parole povere, circa 50 seggi più di quelli di cui gode attualmente l’AKP, il partito di cui il Presidente è stato fondatore e resta il principale leader.

Ma proprio qui sta il problema: riuscire ad ottenere circa 372 seggi va ben oltre la portata dei successi dell’AKP, attualmente rappresentato da 312 deputati. Un balzo elettorale che richiede da un lato la compattezza interna del Partito, dall’altro la capacità di strappare notevoli fette di elettorato ai partiti concorrenti, in particolare i kemalisti del CHP (Partito Popolare Repubblicano) e i nazionalisti del MHP, il Partito di Azione Nazionale, filiazione dei famosi “Lupi Grigi”. E, per far questo, deve necessariamente premere l’acceleratore sul pedale dell’orgoglio nazionale, facendo appello al ventre profondo del popolo turco. Di qui le grandi celebrazioni dell’anniversario della Battaglia di Gallipoli – la sanguinosa vittoria nella I Guerra Mondiale che salvò dal tracollo l’esercito ottomano, gettando le basi per la rinascita della Turchia moderna – di qui l’appropriazione dell’icona di Mustafà Kemal Ataturk – il Padre della Patria che mai, però, ha fatto parte del Pantheon del patito islamico AKP. Di qui la difesa ad oltranza della storia turca, la reazione irosa alle parole di Papa Francesco sul “genocidio armeno” – sempre negato da tutte le principali componenti del diffuso nazionalismo turco – ed anche il rallentamento nel dialogo coi curdi del PKK, che proprio Erdogan, da capo del Governo, aveva avviato per risolvere una questione annosa e cancrenosa.

Tuttavia questa, apparente, svolta “nazionalista” di Erdogan trova notevoli resistenze anche, anzi soprattutto nel suo stesso partito. La frattura con Fetullah Gulen – potente tycoon dei Media e capo di una diffusa Confraternita islamica che avversa ogni forma di laicismo – appare ormai insanabile, tanto che questi ha appoggiato, negli ultimi mesi, tutte le manifestazioni contro Erdogan ed il suo governo; difficili, però, sono anche i rapporti fra l’attuale Presidente ed il suo predecessore Abdullah Gül, uno dei padri nobili dell’AKP, che sembra non condividere certe scelte del Sultano. Per sovramercato, negli ultimi tempi, si registrano anche frizioni con Davutoglu, il Premier che sembra sempre più mal sopportare le continue ingerenze di Erdogan che, come Presidente, dovrebbe rivestire un ruolo super partes. E gli attriti con Davutoglu – prima che un politico il più importante teorico della geopolitica turca – afferiscono proprio alla sfera delle relazioni internazionali. Che, nelle tesi dell’attuale Premier, già Ministro degli Esteri, dovrebbero essere improntate a relazioni di buon vicinato con tutti i paesi limitrofi. Tesi, però, contraddette dalla posizione assunta da Ankara nella crisi siriana, ed oggi rimesse ancor più pesantemente in discussione dal prepotente riemergere della “questione armena”.

La Turchia, oggi, non ha in verità alcuna ragione concreta di frizione con la vicina Repubblica di Armenia, ed anzi proprio Erdogan, negli scorsi anni, ha spinto per un riavvicinamento fra i due paesi. Politica, a dire il vero, non totalmente abiurata nemmeno oggi, visto che il presidente turco, dopo le sfuriate successive al discorso del Papa, ha comunque mandato, il 24 Aprile – data in cui si celebra la memoria della tragedia armena – un messaggio di vicinanza e solidarietà al Patriarca della Chiesa Armena; quasi un segnale che, pur non accettando l’uso, in sede storica, del termine “genocidio”, la Turchia riconosce comunque il passato ed è aperta al dialogo. Dialogo tanto più necessario perché vi sono in troppi che usano la questione del genocidio armeno come un’arma per isolare la Turchia sulla scena internazionale. Tant’è che, in seguito alle reazioni di Ankara al discorso di Papa Francesco, Francia e Germania – che notoriamente non vogliono la Turchia nella Ue – hanno fatto passare al Parlamento Europeo una mozione che “riconosce formalmente il genocidio armeno”; mozione che, benché mitigata nei toni soprattutto per azione della diplomazia italiana, significa l’ennesima porta chiusa in faccia alle ambizioni di Erdogan di portare la sua Turchia nella Ue. Per converso, il fatto che la Repubblica di Armenia sia entrata a far parte dell’Unione Economica Eurasiatica per volontà di Putin, sembra chiudere anche quell’orizzonte ad Ankara. Orizzonte che non più tardi di due anni fa era stato spalancato davanti all’allora Presidente Gül dal suo collega kazako Nazarbayev, che appunto, durante il Vertice del Paesi Turcofoni, aveva invitato la Turchia ad entrare nella nuova alleanza economica.

Per Ankara, dunque, sarebbe essenziale risolvere rapidamente la tensione con l’Armenia, onde fugare quell’isolamento internazionale fino ad ora evitato solo per la politica, ambigua, dell’Amministrazione Obama, sempre più pressata, però, da lobby che vorrebbero usare la “questione del genocidio” come strumento per mettere in crisi l’attuale leadership di Ankara. E rilassare i rapporti con l’Armenia non è cosa facile, perché Erevan non ne ha, in questo momento, alcun interesse. E questo non per attriti con la Turchia, ma il perdurare del contenzioso per il Nagorno-Karabach con la Repubblica dell’Azerbaigian. Azerbaigian che, ovviamente, non ha alcuna responsabilità storica su quanto avvenuto agli armeni nel 1915 nell’Impero Ottomano, ma che è comunque un paese turcofono, con il quale l’Armenia ha in corso, fin dal crollo dell’URSS, una strisciante guerra “a bassa intensità”.

Guerra anche d’immagine e di soft power, dove la rievocazione delle persecuzioni del secolo scorso diviene, inevitabilmente, un’arma di non poco peso. E di questo finiscono con il fare le spese proprio le relazioni con Ankara. Acuendo i problemi di Erdogan.

Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
www.NododiGordio.org

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