Quattro decreti reali per regolare l'attività di imam e mufti nelle 46mila moschee del Paese, proibendo loro di affrontare temi politici o ideologici.
È l'ultima misura del re del Marocco Mohammed VI, e si inquadra in un piano avviato da anni, dopo che, nel 2003, la capitale economica Casablanca fu teatro di cinque attacchi terroristici di matrice islamica in cui rimasero uccise 45 persone. Allora sembrò un fulmine a ciel sereno: il Marocco, crocevia di culture, meta turistica, culla dell'Islam malikita, si pensava immune da qualunque guerra di religione.
L'esigenza sembra tornata urgente ora che il fondamentalismo islamico conquista potere e semina il terrore in alcuni Paesi del Nordafrica, Libia in testa. L'obiettivo dichiarato dal sovrano è quindi rafforzare il controllo sui leader religiosi ed evitare la propaganda jihadista, in un Paese dove convivono da sempre le tre grandi religioni cristiana, ebraica e musulmana. Le nuove norme prevedono che gli imam e predicatori islamici non possano svolgere altre attività politiche o sindacali, così come viene richiesto che si astengano dal manifestare le proprie idee politiche. Obbligatorio, poi, che studino per «attualizzare» il proprio ruolo di guida spirituale.
Uno strumento di sicurezza e di controllo, secondo alcuni, ma ad altri i provvedimenti non convincono. Youssef Belal, analista e autore di testi come «Sociologia religiosa dell'Islam politico in Marocco», ne ha criticato la formula un po' vaga, e dunque discrezionale.
La casa reale invece difende i decreti, sottolineando che si collocano nello stesso alveo della
riforma della Costituzione varata nel 2011, quando, sull'onda delle proteste delle primavere arabe, il sovrano decise di per dare un segnale di democraticità, conferendo maggiori poteri al parlamento.Twitter @giulianadevivo
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