Il discorso più rapido lo fece George Washington, padre della nazione, affacciato al balcone della Federal Hall di New York: quattro frasi, centotrentacinque parole, in un minuto battezzò la Terra dei liberi e nulla fu più come prima. Aveva le mani che tremavano. William Henry Harrison, presidente numero 9, ci mise invece più di un’ora e mezza per non dire niente, prese un freddo assassino che aprì la strada alla polmonite e dopo trentuno giorni era già nella bara, quasi più lungo il discorso della presidenza. Andrew Johnson era così ubriaco che fece fatica a parlare, Andrew Wilson, dopo aver scritto il discorso se lo batte a macchina da solo facendo da segretaria a se stesso, Andrew Jackson aprì al popolo la Casa Bianca e il popolo ubriaco la devastò costringendo «The President» a fuggire da una finestra, Lyndon Johnson giurò in aereo con a fianco Jacqualine Kennedy con il vestito ancora macchiato del sangue del marito. Il primo discorso del presidente non dice mai molto, qualche sano principio di base, alcuni buoni propositi, come la promessa di essere buoni che fanno i bambini a Natale, se ci scappa meno tasse per tutti e raramente frasi che entrano nella Storia per non uscirne più. Come il «non chiedete al vostro Paese cosa può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese» griffato John Fitzgerald Kennedy, che potrebbe essere un mantra anche per l’oggi, o il filosofico «non abbiamo niente da temere se non la paura stessa» slogan sopravvissuto al momento più nero della Grande Depressione e punto di partenza della riscossa economica e morale di un Paese. Ognuno ce l’aveva comunque con qualcosa o con qualcuno. Madison se la prese con l’Europa in guerra che interferiva con navigazione commerciale americana, gli affari sono affari, Truman con «la falsa filosofia del comunismo», Garfield con la poligamia praticata dai mormoni, Reagan con il governo federale: «Nello stato di crisi attuale il governo non è la soluzione del problema, il governo è il problema». Robetta di politica interna, insomma. Quando se ne andò disse invece «volevamo cambiare l’America, abbiamo cambiato il mondo». Pianse quando giurò il suo vice Bush senior e gli lasciò sulla scrivania un bloc notes con l’immagine di tacchini che tentano di buttare a terra un elefante. I tacchini erano i nemici, l’elefante il partito. Cosa volesse dire non è difficile intuirlo. Il primo a scrivere a Bush fu Gorbaciov. Come Putin oggi auspicava migliori rapporti con l’allora Unione Sovietica. Quando lo chiamarono «Mr President» si girò d’istinto verso Reagan: pensava non si riferissero a lui. Quando invece abbandonò la casa Bianca lo fece con un sorriso invece della lacrima: fece entrare i Clinton dicendo «prego, accomodatevi di qua, io sono il portiere...» Ma preparava già la dimora per il figlio. Fu tutta diversa la giornata di Clinton, il primo presidente rockettaro e il primo nato dopo la guerra: il giorno prima del giuramento andò a pregare sulla tomba di Kennedy, poi alla festa in suo onore fece tornare insieme i Fleetwood Mac, che cantarono per lui «Don’t stop thinking about tomorrow», che i clintoniani avevano adottato come inno di guerra per tutta la campagna elettorale. Si esibì lui stesso al sassofono, con le guance rosse e gonfie.
Sarebbero passati più di vent’anni prima che la famiglia uscisse di scena. Hillary al giuramento di Trump sarà, con tutti i musi lunghi e le parole nello stomaco, l’uscita di scena di una «family» che ha segnato la Storia. Peccato solo che sia dalla porta di servizio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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