Il male del mondo a cui non dobbiamo abituarci

Come già in passato, l'opinione pubblica reagisce emotivamente alle immagini che arrivano dal fronte. Ora il rischio è che ci si abitui a tanto orrore

Il male del mondo a cui non dobbiamo abituarci

Di tutta la stagione dell'orrore che qualche anno fa ha attraversato l'Europa c'è una fotografia che più di tutte mi torna alla mente con insistenza. Era stata scattata lungo la Promenade des Anglais di Nizza qualche ora dopo la mattanza del 14 luglio 2016. Non ricordo il volto di Mohamed Lahouaiej-Bouhlel. E pure il suo nome, l'ho dovuto verificare su Wikipedia perché mi si è già scolorito dalla memoria. Ma quell'immagine, il corpicino a terra coperto con un sacco argentato e accanto la bambola dal vestitino rosa, non riesco proprio a togliermela via. Sta lì, nell'inconscio. E di tanto in tanto riaffiora.

Ci sono immagini che, più di altre, smuovono le coscienze e spingono le masse a reazioni emotive. Le portano a reagire, a infiammarsi. Lo avevano capito sin dall'inizio i vertici dello Stato islamico che, per incutere paura all'Occidente, mandavano in mondovisione frammenti di video in cui gli jihadisti sgozzavano ostaggi occidentali dissanguandoli con i machete. I social network, dal 2014, hanno iniziato a riempirsi di tutto quell'orrore. I primi girati benedetti dal Califfo Abu Bakr al Baghdadi - penso all'esecuzione di James Foley o ai 21 cristiani copti decapitati su una spiaggia libica a pochi chilometri in linea d'aria dall'Italia - erano stati sicuramente un pugno nello stomaco. Poi erano diventati la normalità, al pari di un qualsiasi film splatter trasmesso a notte fonda. Col passare dei mesi il "pubblico" occidentale era finito per anestetizzarsi: abituato a vedere morti ammazzati, a dare per scontato che i tagliagole islamisti sono bestie assetate di sangue, a non patire più davanti a una testa che rotola nella polvere, erano passati oltre.

Poi sui nostri cellulari era "apparsa" un'altra immagine devastante: il corpo di un bambino, gonfiato dall'acqua che aveva imbarcato dalla bocca e impallidito dalla morte. Aveva tre anni. Si chiamava Aylan: era fuggito da Kobane insieme ai suoi genitori e aveva trovato la morte nelle acque fredde che bagnano le coste turche da cui era partito. Il cadavere del piccolo col volto immerso nella sabbia bagnata era stato fotografato da una giornalista turca, Nilüfer Demir, e aveva fatto il giro del mondo. Si era levata l'indignazione generale. "Mai più", si era detto. Davanti a quell'immagine ci eravamo sentiti tutti più piccoli, impotenti e meschini. Ma poi è passata anche quella. Oggi il suo nome campeggia su una nave di una delle tante Ong che affollano il Mar Mediterraneo, che con l'orrore della guerra civile in Siria non legano granché e che continuano a favorire l'immigrazione clandestina (con tutti i mali che questa comporta) dalle coste del Nord Africa.

Nelle scorse ore dall'orrore ucraino è emersa una sequenza di scatti che, al pari di quelli appena citati, sono un vero e proprio pugno nello stomaco. Un reporter dell'Associated Press, Evgenyi Maloletka, ha impresso sulla propria pellicola l'ingresso in ospedale di un uomo, un papà, che cerca le braccia di un medico su cui adagiare il piccolino che stringe al petto. Dietro di lui una donna, la moglie, cerca di tenere il passo. Il volto rigato dalle lacrime, la maglietta insozzata dal sangue. Non è suo tutto quel sangue. Ma di Kirill, diciotto mesi di vita prima delle bombe russe di Mariupol. Fedor e Marina sanno che per il figlio non c'è più nulla da fare, ma c'è un istante - quando i medici lo visitano puntando le torce dei cellulari contro le ferite per sopperire all'assenza di elettricità - in cui sembrano sperare nel miracolo. Perché ai medici è questo che si implora: il potere di guarire, sempre e comunque.

Kirill non ce l'ha fatta. È morto. È uno dei tanti. Ma ora che lo vediamo coi nostri occhi com'è perdere un figlio sotto le bombe ci indigniamo ancora di più e torniamo a dirci "mai più". In cuor nostro ci crediamo davvero. Almeno fino a che anche questo conflitto non ci avrà anestetizzati, che ci saremo abituati a tanto male. Esattamente come ci siamo abituati a tanti altri orrori che raccontiamo con cinico distacco.

Ci sono immagini più potenti di altre, dicevamo. Ci spingono a dire "Mioddio i bambini... i bambini no...". Ma dopo ce le dimentichiamo. Il male del mondo ci abitua al peggio. Così non dovrebbe essere per chi ci governa. Dalla gente comune ci si possono aspettare risposte e reazioni emotive, dai politici no. Spetta a loro fare la sintesi, trovare soluzioni e infine risolvere problemi. Oggi il problema porta il nome e la firma di Vladimir Putin. Un problema che, almeno per quanto riguarda l'Ucraina, è scoppiato nel 2014 ma che per disinteresse generale non è mai stato affrontato fino in fondo. Lo stesso è stato fatto, in passato, con l'Isis in Siria, con la barbarie islamista in Europa e con tantissime altre bombe pronte a saltare in aria.

Chi ci governa dovrebbe trovare una soluzione prima che sia troppo tardi e dovrebbe andare avanti a cercarla anche quando, scemata l'ondata emotiva, l'opinione pubblica volta lo sguardo da un'altra parte. Altrimenti tutti questi innocenti saranno morti invano.

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