"Le mie prigioni nel Califfato"

Muhammed Almahmoud, 26 anni, è stato per quasi 20 giorni in un carcere dei jihadisti

"Le mie prigioni nel Califfato"

Muhammed Almahmoud, 26 anni, studente di commercio internazionale all’università di Gaziantep che ha frequentato fino al marzo del 2011, quando la rivoluzione in Siria è cominciata. Fumatore assiduo, come d’altronde molti altri suoi concittadini, mi racconta un po’ com’è la vita dei siriani rimasti fuori dai campi come lui. “Io sono un traduttore. Ho collaborato con le maggiori testate mondiali. Sono l’unico nella mia famiglia, tutta qui in città, a lavorare. Spero anche di finire i miei studi che ho lasciato per prendere parte alle rivolte in Siria. Magari sarebbe ora di finire”. Fra un racconto e l’altro, Muhammed si lascia scappare una pagina brutta della sua esistenza, ma che secondo lui lo ha reso più forte e senza nessuna paura: prigioniero degli uomini del Califfato per due settimane, se l’è cavata.

Il 1 ottobre del 2013, percorrendo la strada fra Ar-Raqqa e Deir Az-Zor (cittadina siriana distante poco più di 100km), dopo circa 40km un checkpoint lo ha fermato. “Ci hanno chiesto cosa facevamo e chi eravamo. Ero spiazzato, non capivo bene cosa stesse succedendo e non sapevo chi fossero. Ci hanno fatto seguire una macchina e ci hanno requisito i nostri documenti”. Dopo circa 20km in direzione di Ar-Raqqa sono arrivati nel villaggio di Al-Karama. “Per fortuna c’era ancora comunicazione con il telefono. Il governo la controlla e la mantiene intatta. Ho chiamato subito un mio collega spiegando la situazione. Neanche lui sapeva chi fossero. Quando poi siamo usciti dalla macchina ho capito chi erano leggendo sull’edificio “Daulat al-islamyya fi al-‘Aairaq wa as- Shaam” (Stato islamico in Iraq e Levante)”.

Sono stati portati nell’ufficio di un Aamir (un “Emiro”). Dopo 4 ore di attesa hanno preso i loro averi e poi li hanno portati in una cella. “C’erano solo qualche coperta e un po’ di pane. Lì abbiamo capito che eravamo fregati. Condividevamo la cella con altre 4 persone, tutte locali. Abbiamo dormito qualche ora”. Il giorno dopo li hanno separati tutti in una stanza differente per alcune ore. Sono stati interrogati. “Quel giorno, ricordo, alle 5 del pomeriggio sono entrati nella cella comune dove ci avevano rimesso. Hanno prelevato Peter. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. L’hanno ucciso un anno dopo. Quando ho chiesto alla guardia dove andasse, mi ha risposto di dimenticarmi di lui”.

Nella stessa notte sono entrate le guardie nella cella, li hanno bendati e legati e poi li hanno fatti salire su una macchina. Dopo 20 minuti li hanno fatti scendere e li hanno fatti entrare in celle differenti. “Eravamo più di 40 persone in una cella abbastanza piccola. Dormivamo uno sopra l’altro. Ho scoperto da altri prigionieri che ero finito ad Ar-Raqqa”. Senza una motivazione precisa, Muhammed è stato arrestato e deliberatamente incarcerato. “Si sentivano le urla delle torture, tutto il giorno. Si mangiava una volta, due se si era fortunati. A volte il cibo arrivava al mattino, a volte dopo mezzanotte. Portavano una scodella piena di riso rosso (chiamato “Burghul” in arabo) o zuppa d lenticchie che mettevano al centro. Non si mangiava niente. La zuppa era migliore perché così non si doveva andare al gabinetto così spesso e ci si andava qualche volta per bere. Non si poteva nemmeno uscire allo scoperto. In più bisognava pregare sempre, non tanto perché ti obbligavano ma perché magari qualcuno faceva la spia sotto tortura”. Il quinto giorno di prigionia Muhammed è stato bendato e portato in una sala dove 4 persone lo hanno interrogato. “Non mi hanno picchiato perché parlavo troppo” dice ridendo, “non stando zitto non avevano tempo di farlo”. La più grande paura è stata il 13 ottobre. In cella è entrato l’emiro Abu Luqmaan, capo della regione di Ar-Raqqa. “Ha preso uno sgabello e si sedeva davanti ogni prigioniero facendo domande. Ha iniziato con due uomini chiedendo il motivo del loro incarceramento. Poi improvvisamente urlava “Aa’daam” (“a morte”) e i prigionieri venivano legati, bendati e portati contro il muro nel corridoio. Io ero il quinto. Mi ha chiesto cosa facevo e gli ho risposto che stavo trasportando materiale medico. Per ingannarmi mi ha chiesto se facevo un lavoro simile a quello della Croce Rossa e poi, dopo che ho ripetuto la parola “Croce”, mi ha condannato e mi ha fatto andare con gli altri nel corridoio. In totale eravamo 6 condannati nella mia cella”. Hanno aspettato per 2 ore nel corridoio con la testa al muro e le mani legate. Il bus che doveva portarli al patibolo era in ritardo e così sono ritornati in cella. Muhammed ha tirato un sospiro di sollievo, era distrutto fisicamente. Poi, durante la notte, il momento decisivo è arrivato. “Dopo mezzanotte sono entrati nella cella e hanno cominciato a leggere i nostri nomi che avevano scritto prima. Il mio era il quinto della lista. Hanno letto il primo, e non è tornato. Dopo mezz’ora anche il secondo. Poi il terzo e il quarto. Toccava a me, ho aspettato. Ero pronto a morire, ho bevuto un po’ di acqua. Nessuno mi ha chiamato”. Quando racconta questa scena, Muhammed fa un sorriso, come se fosse sollevato solamente al pensiero di essere ancora al mondo. “È stato orribile, peggio di una tortura fisica. Per delle ore ho atteso il mio momento. Tutta la mia vita mi è passata davanti. Sudavo freddo, pensavo a mia madre, ai miei amici e alla mia famiglia. Ero pronto ad andare nell’aldilà”. Anche il sesto uomo, che era sulla lista insieme a lui, non è morto. Ha scoperto dopo, che i primi quattro erano combattenti dell’Esercito.

Dopo lo choc più grande, Muhammed ha continuato a stare in cella aspettando. La speranza, lui, l’aveva persa non appena era entrato in prigione. Poi il 19esimo giorno la svolta, il suo rilascio. “È stato il migliore ma anche il peggiore dei giorni. La mia famiglia mi aveva cercato e aveva scoperto che ero imprigionato ad Ar-Raqqa. Ero così spaventato per loro. Alcune volte permettono di vedere la famiglia dalla finestrella della cella ma a me non l’hanno permesso. La guardia, che dall’accento era un saudita, mi ha detto che fino alla “‘aid” (la “festa”) non avrei potuto vederli in un tono arrogante e stupido”. Poi nel pomeriggio, un inquisitore è entrato nella cella. Durante le giornate erano spesso vittime di interrogatori lunghi delle ore, dove dovevano sempre spiegare le stesse cose più volte. “Mi ha chiesto come mai ero ancora li ed ero ancora vivo. Mi sono messo a ridere, ormai non me ne fregava più niente. Non mi avevano lasciato vedere la mia famiglia. Due ore dopo un secondo inquisitore è arrivato e mi ha detto che mi avrebbero portato alla corte della Shar’ia (una sorta di tribunale) e poi anche lui è svanito nel nulla. Il terzo inquisitore mi ha detto infine di seguirlo, insieme al sesto uomo che era sulla lista di morte insieme a me. Ha chiesto che prendessi le mie scarpe ma me le avevano rubate. Poi ha cominciato a farmi domande e a controllare il materiale che era nella mia macchina quando mi hanno imprigionato”. Aveva una macchina fotografica che non ha dichiarato e non se ne sono nemmeno accorti, “idioti” esclama Muhammed in una tono nervoso. Alla domanda della guardia che li controllava “come ti piacerebbe morire?” gli ha risposto ridendo che solo Dio lo sapeva e che non gli interessava. La guardia, commenta, si è zittita.

“L’inquisitore ci ha infine domandato, “e se vi liberassimo?”. Beh, io ho risposto che sarebbe stato molto carino da parte sua” chiaramente ironico. Il problema più grande che si poneva l’inquisitore, ricorda Muhammed sorridendo, erano le scarpe. L’inquisitore sembrava preoccupato perché lui non le aveva. “Andrò a comprarne un paio quando uscirò di qui, gli ho risposto. Ma che domande sono? Era logico che ero contento di uscire da quell’inferno, anche quando è uscito, rammenta semplicemente la contraddittorietà della guardia. “Ci ha detto che gli dispiaceva per il malinteso”. Muhammed scoppia allora a ridere. “Era uno scherzo questo? Queste persone non si rendono conto di quello che stanno facendo”. Fuori dalla prigione ha contattato un amico che gli ha dato un indirizzo di una persona ad Ar-Raqqa. Da lì ha preso un taxi ed è tornato in Turchia. “Solamente ancora una volta ho avuto a che fare con quei dementi”, mi dice sarcasticamente, “è stato qualche mese dopo, quando ero tornato in Siria. Mi hanno fermato ad un checkpoint.

Avevano in mano un grande foglio con moltissimi nomi scritti. Ho avuto troppa paura, il mio cuore batteva a mille. Mi hanno chiesto dove andavo e ho risposto che ero diretto in Turchia per gli studi. Mi hanno lasciato andare, per un pelo”.

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