Era il 1700 quando Pietro il Grande edificò San Pietroburgo per dare alla Russia una finestra sull’Europa ed iniziare quel processo di occidentalizzazione che nei secoli ha sempre trovato sostenitori e detrattori.
In Russia è sempre stato così: il Paese è cresciuto con improvvise accelerazioni e cancellazioni, sistematicamente ha conosciuto figure che hanno detto «quanto è successo finora, non va più bene». Per i russi vale l’accettazione del potere come «affettuosa sottomissione al caro dolce Padre», sia esso il Pope, lo Zar o lo stesso Stalin. Questi personaggi sono poi diventati icone popolari, semidivinità; un Olimpo di cui oggi fa parte con merito anche Vladimir Putin.
Oggi il Presidente russo dà spazio di azione e potere internazionale al Paese, mentre si appresta a consolidare il proprio, di potere, alle prossime elezioni parlamentari del 2016. Tra questione ucraina e pressioni internazionali, le consultazioni di settembre non saranno soltanto un nuovo step dello scambio di cariche tra Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev (che va avanti dal 2008), ma si preannunciano molto impegnative, più del passato. Già, perché questa volta le opposizioni vogliono evitare il cappotto elettorale e giocarsi tutti i jolly a disposizione.
Si spiega così la formazione del grande blocco anti-Putin in corsa per le parlamentari 2016. Il «Republican Party of Russia – People’s Freedom Party», che tra i suoi membri vantava il critico del Cremlino Boris Nemtsov, assassinato il 27 febbraio scorso, ha annunciato l’alleanza con il «Party of Progress», fondato dal blogger anti-corruzione Alexei Navalny. È probabile, poi, che un terzo partito si unirà all’alleanza anti-Putin: «Democratic Choice», una coalizione guidata da un ex ministro, secondo quanto ha diffuso l’agenzia russa Interfax.
Ma dall’altra parte c’è anche il Partito Comunista della Federazione Russa, erede morale (ma non ufficiale) del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Ancora oggi il partito ottiene il 20% circa delle preferenze dei russi, facendo addirittura registrare la maggiore crescita (7%) rispetto a tutte le altre coalizioni durante le scorse elezioni parlamentari del 2011. Dai dati risulta però evidente come la crescita è invece azzerata alle presidenziali del 2012, quando in corsa c’era Putin in persona, che ottiene il 63% circa dei voti, mangiando 3 punti percentuali ai comunisti.
Cosa significa? Che Vladimir Putin è un deterrente alla crescita del sentimento comunista nel Paese. Secondo il Centro Levada, Il 54% dei russi è dispiaciuto per la fine dell’Urss: pur se la punta massima (75%) si era avuta nel 2000, appena due anni fa la percentuale era del 49%. Un sentimento in crescita. E, tra gli amareggiati, più della metà dice di esserlo per la «perdita del senso di appartenenza a una grande potenza». Sì, perché la dissoluzione è stato uno spaesamento, non se lo aspettavano neppure i russi stessi. Persino per i dissidenti sembrava irrealistico mirare alla dissoluzione dell’Unione Sovietica; poi la perestrojka ha deluso molti.
Ecco allora che entra in ballo Putin, colui che ha ridato orgoglio nazionale al Paese (anche trasformando il 4 novembre scorso nella festa dell’Unità Nazionale) e lo ha posto di nuovo al centro del dibattito politico internazionale. Dopo una prima gestione del potere fondata sull’economia, adesso Putin si appoggia alla cultura, alla religione. Si è ricavato il ruolo di moralizzatore dei costumi e di creatore dello spirito, investe sulla cultura in modo deciso. Per Putin è stato fondamentale dosare le citazioni sovietiche: la musica, i veterani con le medaglie, le divise, le bandiere, i simboli. Consapevole del fenomeno della nostalgia per i trascorsi sovietici, cerca continuamente il dosaggio giusto per la Russia attuale. «Siamo noi che ci inaspriamo e le guardiamo con occhio critico. Per il popolo russo quello era ciò che ci voleva», ha affermato in proposito Gian Piero Piretto, uno dei massimi esperti italiani di cultura russa.
È anche per questo che ad uno straniero Mosca appare a tratti ancora imbevuta di quel sidro di ideologia e regime, inglobata nella sua Storia passata. Falci e i martelli e stelle rosse fanno ancora da monito sulle facciate dei palazzi (persino quelli istituzionali, come la Duma, il nostro Parlamento), le rappresentazioni iconografiche delle vittorie belliche decorano ancora le splendide stazioni della metropolitana moscovita, vengono coccolate e valorizzate le «sette sorelle», i grattacieli in perfetto stile classico-socialista simbolo della potenza staliniana. Persino l’Aeroflot, la compagnia aerea di bandiera, conserva il simbolo di quella che fu l’Urss tra due ali. Non è come per il Fascismo in Italia. Qui quei simboli fanno parte della storia nazionale. In Russia non c’è stata alcuna rimozione collettiva del regime. Anzi, Lenin è venerato mentre giace imbalsamato in un mausoleo a dir poco sorvegliato in quella piazza Rossa un tempo palcoscenico di parate sovietiche ed oggi costellata di multinazionali americane. Chissà cosa ne penserebbe, il rivoluzionario del 1917. «È la globalizzazione, bellezza», gli direbbe qualcuno.
A Izmailovo c’è uno dei mercati più famosi di Mosca. Si vende di tutto, da souvenir per i turisti ad oggetti di scarso valore trovati svuotando le mansarde. Sulle bancarelle ufficiali, tra colbacchi e matrioske, spiccano i più svariati feticci raffiguranti i membri dell’Olimpo russo. Tazze, maglie, cappelli, accendini, fiammiferi, statuette, tutti raffiguranti Stalin, Lenin e Putin, i tre dèi venerati in varia misura e in diversi momenti storici. Ma è proprio l’attuale Presidente della Repubblica federale che viene «venduto» in tutte le sue forme: a petto nudo, mentre caccia, con un gesto di approvazione, mentre si tiene in forma. E’ la creazione di un nuova icona popolare, al pari delle precedenti. Al piano superiore del mercato il tipo di merce cambia: vettovaglie e oggetti di dubbia utilità giacciono a terra su stuoie tra cimeli del comunismo: elmetti, spille e copie della «Pravda», lo storico organo di informazione del partito. Anche il target dei venditori è diverso: sono soprattutto anziani, che provano a disfarsi dei totem sovietici per sola necessità di profitto.
Camminare tra le strade della capitale elargisce ancora un’aura anomala, in cui il controllo e l’ordine la fanno da padrona. Sciami di persone ovunque compongono file asimmetriche in un silenzio che lascia senza fiato. Una metropoli di 12 milioni di persone che sembra abitata da poche centinaia. Forse è anche questa l’eredità lasciata da settant’anni di socialismo reale. Il tipico carattere freddo dei popoli del nord, poi, è stato amplificato da una rigida organizzazione sociale che ha formato almeno tre generazioni. Ligi al dovere, silenziosi e un po’ scontrosi, nelle metropolitane si cammina a testa bassa e a passo svelto, con sguardi seri, a tratti tristi, senza mai fissare negli occhi il prossimo. Ed è proprio nel sottosuolo della città che, tra nevrotici rumori di scarpe al trotto e teste sorvolate da simboli sovietici, sembra di aver preso una macchina del tempo e di attraversare l’Urss del 1960.
Kolomenskoe, sud della città. All’uscita della metropolitana un gruppo di veterani canta inni sovietici bellici in divisa. Sono reduci della guerra in Afghanistan, raccolgono denaro per gli gli invalidi di guerra feriti durante l’invasione dal 1979 al 1989. In pochi minuti sono decine i passanti che entusiasti si complimentano coi reduci e decidono di fare beneficenza. Ecco, Putin ha sfruttato proprio questo sentimento: la viva riconoscenza dei sovietici nei confronti di quei patrioti in divisa che ora cantano sulla sponda del fiume Moskva. Si tratta di una costruzione propagandistica sapiente e raffinata, di vecchia scuola, che insiste su nervi scoperti del popolo russo.
D’altronde, il problema dei russi è sempre stato: come ci rapportiamo con l’Occidente. Nella loro storia è sempre stata presente una componente di complesso d’inferiorità: noi siamo arretrati rispetto al resto del mondo. Ecco, quello che offre oggi Putin è quello che ha offerto a suo modo l’Urss: il riscatto nei confronti dell’Occidente.
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