Si chiamava "kafala" il sistema della sponsorship che in Qatar regolava il lavoro degli stranieri e che molte volte aveva portato le ong che si occupano di diritti umani a denunciare l'esistenza nel Paese del Golfo di una forma di "moderna schiavitù".
Un problema che era sorto soprattutto quando si erano iniziato a parlare dei Mondiali di calcio del 2022, che proprio nel Paese arabo si terranno, e del fatto centinaia di migliaia di lavoratori stranieri (indiani, nepali, cingalesi) erano arrivati in Qatar, impegnati nei progetti di costruzione e fatti lavorare in condizioni disumane, senza neppure la possibilità di lasciare il Paese, con i loro passaporti nelle mani dei padroni.
Dopo numerose polemiche il governo del Qatar ha martedì abolito il sistema della sponsorship, che obbligava i lavoratori a chiedere il permesso - e a ottenerlo - per cambiare lavoro o per superare la frontiera. Una grossa novità, ma non la fine della schiavitù per i lavoratori asiatici.
Sono ancora una volta associazione come Amnesty International a rimettere la notizia in contesto, spiegando che per gli indiani e i nepalesi costretti a lavorare in condizioni disumane nulla cambierà.
"La nuova legge potrà anche avere abolito il termine 'kafala', ma lascia lo stesso sistema intatto", sostiene il
vice-direttore di Amnesty per le questioni globali, aggiungendo che Fifa e governi internazionali non dovrebbero utilizzare questa scusa per "sostenere che il problema dei lavorati immigrati sia risolto".Così non è.
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