È durata 7 ore la riunione convocata nella capitale austriaca per trovare una soluzione alla crisi siriana. Intorno allo stesso tavolo a discutere sul futuro di un conflitto c’erano per la prima volta i rappresentanti di Arabia Saudita, Turchia, Iran, Russia e Stati Uniti. Dal documento finale elaborato dai 20 Paesi partecipante si evince la volontà di avviare un processo politico condiviso sia dal governo siriano che dall’opposizione che porti ad una risoluzione credibile e non settaria, seguita da una nuova costituzione e da elezioni sotto la supervisione dell’Onu e aperte alla diaspora e ai rifugiati. Nel testo di nove punti si sottolinea che restano “fondamentali l’unità, l’indipendenza, l’integrità territoriale e il carattere secolare” della Siria e che “le istituzioni statali devono rimanere intatte”.
Nessun riferimento sull’attuale presidente Bashar Al Assad, tanto che l’inviato delle Nazioni Unite per la crisi siriana Staffan De Mistura, intervistato da Repubblica, ha risposto così sul suo futuro: “Non si è affrontato il nodo della leadership in Siria, abbiamo deciso di essere d’accordo nel non essere ancora d’accordo su questo punto”. Un punto questo che va nettamente a favore di Mosca e dei suoi alleati i quali non hanno mai nascosto il loro appoggio incondizionato al leader alawita. Qualora dovessero esserci nuove votazioni, Assad vincerebbe a mani basse, reduce dai risultati ottenuti alle ultime presidenziali (88 per cento dei consensi nel 2013) e dal sostegno popolare nelle zone controllate dall’esercito regolare.
Fin dall’inizio il Cremlino aveva pianificato un coalizione internazione inclusiva (a differenza di quella “esclusiva” voluta dalla Casa Bianca). Con la partecipazione dei rappresentanti del governo iraniano ai colloqui di Vienna le autorità russe hanno firmato l’ennesimo successo. Non sarà dunque sul piano diplomatico che gli Stati Uniti potranno vincere la partita, anche perché nelle sedi istituzionali è difficile identificare un interlocutore siriano credibile che possa porsi a capo di un governo di transizione (senza Assad). L’unico modo di Washington per ristabilire la parità, dunque la capacità di difendere i suoi interessi nella regione mediorientale, è quello di giocare la partita sul piano militare equilibrando le forze in campo. Già un paio di giorni fa Barack Obama ha autorizzato, per la prima volta, il dispiegamento di “meno di 50” unità di forze speciali nel nord della Siria, e di schierare aerei A-10 e jet F-15 nella base turca di Incirlik, nel sud della Turchia. Inoltre il Pentagono sta valutando il rafforzamento della flotta e delle risorse militari navali in Europa per fronteggiare l’aumentata presenza delle navi da guerra e dei sottomarini russi, che operano in un raggio d'azione che spazia dal Mar Nero e dal Mediterraneo fino all’Oceano Pacifico. A riferirlo al Financial Times è stato l'ammiraglio John Richardson, nuovo capo delle operazioni navali Usa, spiegando che il nuovo attivismo navale russo non ha paragoni dalla fine della Guerra Fredda. Sebbene alcune delle accresciute attività navali russe abbiano a che fare con il coinvolgimento di Mosca nel conflitto in Siria, è stato lo stesso capo di stato maggiore della Marina russa a riferire che i pattugliamenti sottomarini sono aumentati del 50 per cento rispetto al 2013.
E non è un caso che proprio in questi giorni sempre nel Mediterranneo, più precisamente a Trapani (Sicilia) si stia svolgendo l’operazione Nato “Trident Juncture 2015”, vale a dire la più grande esercitazioni militare
degli ultimi venti anni. Se pensavamo che si trattasse di un avvertimento alla Russia, ora possiamo dire di avere una netta conferma da parte del Pentagono. La seconda guerra fredda è iniziata da un pezzo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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