Inizialmente le notizie arrivate dalla Repubblica Democratica del Congo parlavano di un agguato contro un convoglio della missione Monusco non lontano da Goma. Si tratta della missione delle Nazioni Unite presente nel Paese africano da almeno due decenni.
Forse per questo, quando si è saputo che l'ambasciatore italiano Luca Attanasio era morto in un agguato teso in una delle strade più importanti della turbolenta provincia del Nord Kivu, è apparso spontaneo pensare che si trattasse proprio di un convoglio di Monusco. Ma in realtà la missione Onu non c'entrava nulla.
Il Palazzo di Vetro però è ugualmente coinvolto nella vicenda. L'ambasciatore, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, era in viaggio nell'ambito di un'iniziativa del Wfp, il Programma Alimentare Mondiale, un'agenzia dell'Onu.
Da qui le tante possibili domande che potrebbero riguardare le responsabilità delle Nazioni Unite. A partire dalle condizioni di sicurezza con cui è stato fatto viaggiare il nostro ambasciatore. Il convoglio non è stato scortato dai caschi blu, nessuno degli oltre 17.000 soldati della missione Monusco stava seguendo gli spostamenti del diplomatico.
Un punto che potrebbe essere preso in considerazione nelle inchieste che nei prossimi giorni saranno aperte. A Roma un fascicolo è stato già istituito, ma un'indagine è stata istituita anche dalle stesse Nazioni Unite. Anche perché la morte dell'ambasciatore italiano ha avuto molta risonanza politica e mediatica a livello internazionale, circostanza che spingerebbe l'Onu ad aprire una propria inchiesta interna.
L'assenza di una scorta è stata commentata nelle scorse ore dal generale Marco Bertolini, ex comandante del Coi, Comitato Operativo di vertice Interforce: “Non c'è assolutamente da stupirsi se il convoglio con a bordo l'ambasciatore italiano, nella Repubblica democratica del Congo, viaggiava senza una scorta” è il pensiero del generale riferito all'AdnKronos.
“Intanto – si legge ancora nelle dichiarazioni di Bertolini – l'ambasciatore non si muoveva da solo ma aveva accanto a lui un carabiniere per la sua protezione personale, come elemento di sicurezza e di dissuasione, purtroppo morti entrambi. Dunque, una certa dimensione di sicurezza era stata assicurata”.
Non solo, ma secondo il generale in un Paese come la Repubblica democratica del Congo è impossibile controllare gli spostamenti di tutti i diplomatici o dei convogli sensibili: “Si tratta di una nazione enorme – ha concluso il generale – con zone ad alto rischio e zone considerate meno rischiose. Evidentemente, il convoglio Onu si muoveva all'interno di un'area che era considerata tranquilla”.
Il Wfp in effetti ha fatto sapere che la strada percorsa dall'ambasciatore, un'arteria che si dipana dal lago Kivu fino all'interno della regione a nord di Goma, era considerata sicura specialmente rispetto ad altre della zona.
Ma ammesso che per le condizioni di sicurezza del luogo dell'agguato era possibile immaginare di viaggiare con la sola protezione di un carabiniere, perché allora non assegnare un'auto blindata? È questa l'altra importante domanda che imperversa tra gli inquirenti. Il mezzo usato dal convoglio si è presentato ai soccorritori con i finestrini crivellati dai colpi.
Si trattava quindi di un fuoristrada comune, facilmente attaccabile se messo sotto mira. Anche se la strada era ritenuta sicura, negli anni passati è stata funestata da altri eventi simili. Nel 2018 lungo questa arteria due turisti inglesi sono stati rapiti e poi rilasciati da miliziani delle Forze Democratiche ruandesi (Fdlr), lo stesso gruppo maggiormente sospettato per l'agguato odierno.
Considerando inoltre che la provincia del Nord Kivu è da anni al centro di una guerra civile mai del tutto domata,
l'Onu avrebbe potuto prevedere l'uso di un mezzo blindato per aumentare la sicurezza. Circostanza non avvenuta e che potrebbe aprire non poche maglie per ricostruire le responsabilità di quanto accaduto nelle scorse ore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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