Il Nanga Parbat non è una montagna come la altre. Si trova nel Kashmir, in Pakistan, e il suo nome in lingua urdu significa Montagna Nuda, ma per gli sherpa del Nepal è la Montagna Mangiauomini, o la Montagna del Diavolo, avendo fatto strage di quanti hanno tentato di scalare i suoi 8126 metri. È la montagna che costò la vita a Günther Messner, il fratello minore di Reinhold, travolto nel 1970 da una valanga dopo che i due erano riusciti a conquistarne la vetta arrampicandosi per la prima volta dal versante meridionale, lungo l'indiavolata parete Rupal, in perfetto stile alpino (con equipaggiamento minimo) e senza il supporto delle bombole di ossigeno, tentando poi la discesa lungo l'inviolato versante Diamir. Vicenda raccontata nel film del 2010 Nanga Parbat, diretto da Joseph Vilsmaier. «Ho pagato per anni i montanari di Diamir perché cercassero i resti di mio fratello» ha ricordato Reinhold Messner nel 2020. «Ci sono riusciti trentacinque anni dopo, e l'analisi del Dna ha dimostrato che si trattava di Günther».
Eppure quella tragedia non lo ha fermato: tra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta ha domato una dopo l'altra le quattordici cime sopra gli ottomila (tutte in Asia), e lo ha fatto ripetutamente, spesso in arrampicata leggera, aprendo nuovi percorsi, e per di più sfidando la stagione invernale. Dire Messner è dire Nanga Parbat, anche se non solo. A rinverdire il mito un po' sinistro di quella che è ben più di una montagna è uscito da pochi giorni Nanga Parbat. L'ossessione e la Montagna Nuda (66thand2nd, pagg. 114, euro 15), di Orso Tosco, interessante autore con all'attivo due romanzi pubblicati con minimum fax (Aspettando i Naufraghi, 2018, e London woodoo, 2022). Dopo quella tragedia, racconta Tosco, Messner volle sfidare nuovamente la Montagna Mangiauomini, forse anche per liberarsi di un peso, per elaborare definitivamente il lutto, compiendo un capolavoro: l'ascesa in solitaria del Nanga Parbat in stile alpino. Sconvolgente era stata la prima impressione lasciata sui fratelli Messner da quella soggiogante montagna: «Giganteschi ghiacciai pensili, pareti inquietanti solcate da slavine» aveva annotato il giovane Reinhold, destinato non soltanto a sopravvivere al fratello, ma anche a diventare una leggenda vivente dell'alpinismo, coronando nel 1986 il sogno di essere il primo a conquistare tutti gli Ottomila, oltre ad aver scalato le Sette Vette, ossia le montagne più alte di ciascun continente.
«Con lui lo stile alpino raggiunge il proprio apice», al servizio «della purezza e dell'essenzialità», ben lontano dalle «enormi spedizioni himalayane con centinaia di portatori al seguito». Ma il Nanga Parbat ovviamente non è soltanto Messner. Ammantata da un alone di leggenda, è una montagna capace di incutere soggezione nei più esperti alpinisti, presentandosi come un nudo corpo roccioso battuto dai venti e con le pareti così vertiginose da non consentire alla neve di sostare a lungo e tali da non offrire appigli. Per la sua collocazione, pare quasi volersi tenere ombrosamente in disparte, rispetto alle altre vette dell'Himalaya, rendendosi così poco accessibile agli uomini da meritare l'appellativo di Diamir, che in sanscrito significa Montagna degli Dei. La sua strana conformazione la fa assomigliare a una «serie di onde immense, alte quanto il cielo, che subito dopo essersi scontrate tra loro vengano trattenute e congelate in un unico momento, un fermo immagine reso eterno dalla roccia».
Ritenuta a lungo invincibile, fu l'alpinista austriaco Hermann Buhl, nel luglio del 1953, a guadagnarne per primo la vetta, da solo e senza ossigeno supplementare. Fino a quel momento tutti i tentativi di scalarla erano falliti. Negli anni Trenta del secolo scorso divenne un'ossessione per il regime nazista (come raccontato nel film Sette anni in Tibet). «Quando i tedeschi cercarono di raggiungere la sua vetta - racconta Tosco - nessuno conosceva il Nanga Parbat. Fatta eccezione per la divinità che lo abitava sin dall'inizio dei tempi, e che non aveva alcuna intenzione di accogliere visitatori non richiesti». E così fu una strage dietro l'altra. Capace come nessun'altra montagna di «gettare un incantesimo» sugli scalatori di tutto il mondo, il Nanga Parbat, con «la sua gelida quiete», «le sue pareti e i suoi seracchi, con il vuoto e i crolli sempre in agguato», ha rappresentato per molti «un sogno, incomprensibile e crudelmente necessario», a cominciare dal pionieristico Albert Mummery, «il primo a tentare la scalata di un Ottomila. Il primo a perdervi la vita» nel 1895. Il suo nome «si legò per sempre alla parete di ghiaccio che l'aveva ucciso: da allora lo sperone alla cui base trovò la morte porta il suo nome. E il fatto che proprio quello stesso sperone sia riuscito, più volte, a reclamare altre vittime getta una luce sinistra sul magnetismo di cui è capace. Gli uomini e le donne sembrano attratti da questa zona incredibilmente pericolosa come falene dalla luce di una candela».
Dopo di lui, molti altri. Nives Meroi, bergamasca, è stata la prima donna italiana a scalare il Nanga Parbat nel 1998 (oltre ad aver conquistato con il marito tutti gli Ottomila). La francese Élisabeth Revol la prima ad affrontarlo in inverno, nel 2018, dopo che Simone Moro (altro bergamasco) si era reso protagonista della prima ascensione invernale in assoluto due anni prima. E poi un altro italiano, il laziale Daniele Nardi, morto nell'inverno del 2019 nel tentativo di dare l'assalto proprio allo sperone Mummery, la via più diretta, ma anche la più impervia. Uno dopo l'altro, tutti impegnati in una sfida innanzitutto con sé stessi, con i propri limiti, in cerca di qualcosa che forse non esiste, ma a cui è stato dato un nome: ricerca dell'assoluto, di quella libertà totale «che si riesce a trovare soltanto lassù, appesi alla roccia, tra i ghiacci, diretti verso la vetta».
Perché l'alpinismo non è soltanto sfida, conclude
Tosco, ma anche un modo «per ristabilire i valori essenziali della vita, valori che il mondo e la società tentano sempre di stravolgere e inquinare, e che invece l'alta quota è in grado di formulare con chiarezza assoluta».
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