Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica
È tutto vero, ma per i Pm bisogna chiuderla qui. La sponda giudiziaria dell’affaire immobiliare monegasco, che vede indagati per truffa sia l’ex leader di An Gianfranco Fini che il tesoriere del partito Francesco Pontone, si avvia alla conclusione già anticipata nei giorni scorsi: archiviazione.
In attesa della decisione del Gip, le indagini hanno sin qui dimostrato che quell’appartamento che An ereditò dalla militante Anna Maria Colleoni venne dato via a un prezzo molto inferiore a quello di mercato, tre volte più basso, come anticipato dal Giornale lo scorso 18 ottobre. Secondo la procura, che cita come fonte la Chambre Immobiliére Monegasque, il prezzo corretto sarebbe stato di oltre 800mila euro (una stima comunque accomodante, rispetto ai prezzi riscontrabili sfogliando le offerte immobiliari del Principato nel 2008). Fini concesse il placet all’offerta che gli prospettò il «cognato» Giancarlo Tulliani, anche se era di appena 300mila euro, e la casa fu venduta alle società off-shore che, secondo documenti del governo di Saint Lucia, sono riconducibili allo stesso Tulliani. Che il prezzo di vendita dell’appartamento non fosse congruo viene dunque riconosciuto per tabulas anche dai magistrati romani. E il punto, che sembrava centrale per l’inchiesta, smentisce definitivamente le continue quanto improbabili affermazioni in senso contrario fatte da Fini e dal suo entourage.
Ma non è tutto. Sempre la procura - che solo ieri, non potendone fare a meno, ha dato notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Fini e Pontone, sulla quale per una volta miracolosamente gli inquirenti sono riusciti a custodire il segreto - nel corso delle indagini ha riscontrato un altro elemento che questo quotidiano aveva evidenziato nel corso dell’inchiesta giornalistica su Montecarlo. Ossia che An, nella persona del tesoriere Pontone, negli anni passati ha ricevuto più di un’offerta d’acquisto per l’appartamento di boulevard Princesse Charlotte, 14. Lo avrebbe ammesso nel suo interrogatorio lo stesso Pontone, che all’Immobilier Dotta, intermediario per quelle offerte, rispose che il partito non era intenzionato a vendere. L’esistenza di altre offerte precedenti è l’esatto contrario di quanto Fini sostenne fiero ad agosto, nei suoi otto (non) chiarimenti: «Non corrisponde al vero che siano state avanzate a me o, per quel che mi risulta, all’amministratore senatore Pontone o ad altri proposte formali di acquisto». È agli atti della procura che altri si interessarono per comprare contattando Pontone e il partito: Fini ha dunque mentito, non era informato, o semplicemente le offerte non erano sufficientemente formali?
Dunque quanto scritto dal Giornale si è dimostrato tutt’altro che fango. Ma per la procura questi elementi non giustificano una richiesta di rinvio a giudizio. Questo perché, come spiega una nota dell’ufficio giudiziario capitolino, Fini era «presidente dell’associazione/partito, rappresentante della stessa e titolato a disporre del suo patrimonio». Insomma, poteva fare e disfare come gli pareva. Senza renderne conto a nessuno. Da vero padre padrone di An. E dunque, non dovendo rispondere che a se stesso nell’alienazione dell’immobile, a detta dei Pm è impossibile rilevare «artifizi o raggiri» per la contestazione della truffa. E il danno provocato alle casse del partito, e quindi agli iscritti, dalla svendita a prezzo di saldo della casa? Amen, almeno penalmente. I Pm chiudono la porta del reato, ma indicano la finestra del diritto civile: «Qualsivoglia doglianza, quindi, sulla vendita a prezzo inferiore, non compete per le ragioni dianzi esposte al giudice penale ed è eventualmente azionabile nella competente sede civile».
Il dubbio che Fini abbia, consapevolmente o meno, procurato un ingiusto profitto al «cognato» lascia dunque indifferenti i Pm. Che, infatti, pur indagando Fini, nel corso delle indagini non l’hanno mai voluto ascoltare. Stesso discorso per Tulliani, «salvato» dalla passerella in procura anche dopo le rivelazioni del governo di Saint Lucia che lo indicavano come beneficiario effettivo delle societa Printemps e Timara perché l’esposto della Destra che ha innescato l’inchiesta, secondo le toghe romane, ipotizzava il reato di truffa a carico dei soli vertici di An. Qualsiasi decisione prenderà il Gip, il fronte giudiziario non chiarisce i troppi punti oscuri dell’affaire politico-immobiliare. A cominciare dal presenza di Fini a Montecarlo, negata dal diretto interessato e confermata da più testimoni. E che dire sul «titolare» della casa: lo stesso Fini, che sostiene di aver appreso che Tulliani ne era divenuto l’inquilino solo mesi dopo la vendita dalla sua compagna, nell’ultimo videomessaggio ha ammesso di essersi chiesto se non sia proprio il «cognato» il proprietario.
Poi c’è il filone dei mobili e dei lavori di ristrutturazione, con il cognato che assillava l’ambasciatore, su cui Fini viene contraddetto dai fatti. Nel centro arredi romano dove la cucina che ora si trova a Montecarlo è stata comprata, è stato visto da due impiegati accompagnare la sua compagna. A coordinare almeno la prima fase dei lavori, stando ai racconti di un importante costruttore monegasco, c’era proprio Elisabetta Tulliani. Se Fini oggi ha qualche dubbio sul cognato, non risulta ne abbia sulla compagna che lavorava alacremente per il «nido» monegasco del fratellino affittuario all’insaputa del suo compagno.
C’è questo e tanto altro da chiarire. Penalmente non sarà rilevante, politicamente è uno scandalo. Lo «scandalo della casa di Montecarlo».gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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