La mostra della discordia? È da vedere

Il curatore Bonami viene accusato di revisionismo: quindi di fare il suo mestiere

Da aprile la mostra «Italics» a Palazzo Grassi di Venezia è sulle pagine dei giornali per gli attacchi scatenati contro il curatore Francesco Bonami, trasformatisi in un battage pubblicitario senza precedenti. A essere maligni, si potrebbe quasi pensare che il curatore abbia inserito i nomi incriminati (Annigoni, Clerici, Ferroni...) per suscitare polemica. Giustamente Germano Celant ha tagliato corto: «Vediamola questa mostra. Magari per stroncarla, ma vediamola».
Diciamo subito che una mostra non può essere giudicata dalla lista dei nomi, ma è fatta dalla qualità delle opere, dal modo di presentarle, da richiami, incontri e scontri che si propongono visivamente al visitatore. Certo, anche qui ci sono assenze eccellenti (Paladino, De Maria...) e presenze ingiustificate. Errore forse di metodologia curatoriale. Ma bisogna dire che non convince l’accusa di revisionismo. Bonami si è chiesto «perché questa parola abbia una valenza negativa» e in effetti il termine è talmente abusato che sarebbe meglio non usarlo più. Si può discutere la rilettura di Bonami, non negargli il diritto di proporla.
0La verità è che Bonami non avrebbe potuto fare una mostra diversa, ideologicamente connotata, proprio per un fatto generazionale. Il crollo delle ideologie ha investito tutto. Nell’arte sono stati proprio artisti come Chia, Clemente, Cucchi (presenti con opere molto belle di quegli anni cruciali, tra la fine dei ’70 e i primi ’80), Paladino e De Maria a far cadere quelle mura e ormai le carte sono mescolate. «Questa mostra - dice Ludovico Pratesi - racconta la storia di un fallimento, dall’euforia del primo piano alla nostalgia del secondo. Ma il vero problema è un altro: perché una mostra che fa il punto sull’arte italiana viene realizzata da un francese, il grande collezionista François Pinault?». In realtà anche i precedenti consuntivi furono presentati da istituzioni straniere: nell’81 il Beaubourg, nell’89 la Royal Academy, nel ’95 il Guggenheim. Che l’Italia non abbia voglia di riflettere sulla propria storia?
«L’artista non fa riferimento alla storia, crea la storia» dice Sandro Chia mentre visitiamo la mostra (che a lui piace). Aggiunge che «l’arte ha bisogno di umiltà». Bonami ha avuto questa umiltà ed è una delle cose positive della mostra. Più che sui nomi degli artisti, ha svolto una ricerca sulle opere. Ha costruito l’esposizione sala per sala creando confronti e interni circuiti. Il percorso non è cronologico, ma per nuclei di aggregazione tematica. Alcune sale sono «scombiccherate», ma altre sono riuscite: quella centrale, con le bandiere rosse dei Funerali di Togliatti di Guttuso e il bellissimo Compagni di Schifano, fino alla bandiera che affonda nel blu di Bruna Esposito, mentre al centro si accampa la Vedova blu di Pascali, genio italiano; quella sull’identità femminile con la giovane italiana di Mauri, i vibranti disegni di Vanessa Beecroft, le mani di Ketty La Rocca e un poetico volto di Marisa Merz; quella dove i percorsi di Garutti incontrano la pietra con la bussola di Anselmo e l’atlante di Ghirri.
La mostra ha un prologo sul Canal Grande: la figura bronzea di Boetti con la testa avvolta nelle nebbie del pensiero. Con l’Italia rovesciata di Fabro iniziamo il vero e proprio viaggio: fra qualche caduta di tono, sono tante le opere notevoli. La straordinaria parete di lapidi di Salvo, i magnifici sicofoil di Carla Accardi, Se la forma scompare la sua radice è eterna di Mario Merz, vera epigrafe per l’arte italiana. Faccio il percorso con Paola Pivi che si entusiasma per gli ambienti di Alviani, Colombo, Pistoletto. Tra i giovani l’onore della sala è riservato a Tuttofuoco, Assael e Vezzoli.
E poi i grandi artisti italiani, senza distinzioni di generazione: la stessa Pivi, Ontani, Gabellone, Penone, Castellani, Moro, Bartolini, Scarpitta, Vedova, Bonvicini, Zorio, Festa, Perrone, Ra Di Martino, Cuoghi... Fra alti e bassi, la mostra fa giustizia di un luogo comune: che l’arte italiana sia solo arte povera e transavanguardia, due definizioni fortunate, ma oltrepassate dagli stessi protagonisti. Boetti usava dire: l’arte povera, se è esistita, è durata due anni.

Pensiamo all’eccelsa tavola a carboncino di Gino De Dominicis, alla lirica fontana della vita di Marisa Merz, al geniale autoritratto di Alighiero Boetti: possiamo etichettarli «arte povera» o «transavanguardia»? È l’arte italiana.
LA MOSTRA
«Italics. Arte italiana fra tradizione e rivoluzione 1968-2008». Venezia, Palazzo Grassi, Campo San Samuele. Catalogo Electa. Fino al 22 marzo. www.palazzograssi.it.

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