L’America è la terra delle opportunità, il posto mitico nel quale tutti i sogni possono diventare realtà, basta lavorare duro e crederci fino in fondo. Sebbene il cosiddetto American Dream sia uno dei miti più famosi al mondo, le storie di chi è riuscito a "trovare l’America" dall’altra parte dell’oceano sono, a volte, davvero incredibili. Se fosse scritta su un copione, immaginare che un esiliato, costretto dalla guerra a lasciare tutto alle spalle, passare anni in un campo profughi, la cui famiglia decise di ripartire da zero quando aveva 15 anni in un paesino della Pennsylvania diventi il più grande pilota a stelle e strisce sembra davvero inverosimile.
Eppure, questo è quanto è successo al figlio di un fattore di Montona, Istria, l’unico nella storia a conseguire la tripla corona del motorismo americano, trionfando ad Indianapolis, a Daytona e nel mondiale di Formula 1. Sebbene abbia vinto come pochi altri, questo italo-americano cresciuto col mito di Ascari ha provato per decenni a ripetersi sull’ovale più famoso al mondo, senza mai riuscirci. Questa maledizione è passata poi ai suoi eredi, che continuano a fallire anno dopo anno. Ecco perché questa settimana "Solo in America" vi porta nell’Indiana per raccontarvi la storia di come Mario Andretti non sia mai riuscito a ripetere la storica impresa del 30 maggio 1969, dando il via ad una maledizione che coinvolge la sua numerosa famiglia.
Inseguendo il mito Ascari
La storia del più famoso pilota a ruote scoperte del motorismo americano era iniziata dall’altra parte dell’oceano, in un paesino che ora si chiama Motovun e si trova in Croazia. Allora Alvise Andretti era un fattore e gestiva le proprietà di una ricca famiglia italiana in Istria, mentre la mamma Rina si occupava della famiglia. Quando Mario ed il gemello Aldo avevano solo otto anni, il trattato di Parigi consegnò questa terra irredenta alla Yugoslavia, dando il via all’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. La famiglia Andretti perse tutto e si ritrovò in un campo rifugiati vicino a Lucca, costretta a ripartire da zero. Mario racconta questa ordalia come se fosse la cosa più normale al mondo: "Mio padre lasciò tutta la sua vita, abbandonammo la nostra casa, portandoci dietro solo quel che riuscivamo a trasportare. Ci ritrovammo da qualche parte in Toscana. La situazione era difficile ma mio padre fece quel che aveva sempre fatto: trovò il modo di mantenerci. Non abbiamo mai avuto freddo o fame, siamo andati a scuola come sempre, non ci mancava niente".
A sentire la madre Rina, la vera passione dei gemelli erano le corse, tanto che quando avevano due anni prendevano i coperchi delle pentole e correvano in cucina, anche se non avevano mai visto un auto dal vero. A cinque anni si erano costruiti delle auto di legno e correvano come pazzi giù per le stradine dell’Istria. L’impatto con le auto vere sarebbe arrivato più avanti, quando furono assunti da un garage come parcheggiatori: "La prima volta che guidai una macchina, sentii il motore animarsi e il volante prendere vita. Non riesco a descrivere questa sensazione ma la rivivo ogni volta che entro in una macchina da corsa".
Si narra che Mario guidò la sua prima monoposto ad Ancona, quando aveva 13 anni, nella cosiddetta Formula Junior. Qualche anno dopo, fu proprio Andretti ad ammettere che si erano inventati la storia quando arrivarono in Pennsylvania per riuscire a gareggiare nelle gare di stock cars. Marco De Cesari e Danilo Piccinini, i proprietari del garage, portarono i fratelli Andretti all’Abetone nel 1954 per vedere le auto della Mille Miglia che passavano. Mario ed Aldo erano grandi tifosi di Alberto Ascari ed ebbero occasione di vedere lui ed il grande Juan Manuel Fangio battagliare a Monza prima di trasferirsi in America. Mario non dimenticò mai quella sensazione: "Ero in trance, travolto dai suoni, dalla velocità. Non avevamo un posto in tribuna ma sulla montagnola alla sinistra della Parabolica. Meglio così, si vedeva meglio".
L'impatto con Indianapolis
Per raccontare la storia di come il figlio di un rifugiato di guerra diventò uno dei più grandi piloti della storia ci vorrebbe un libro, ma furono molti ad accorgersi che, dietro ad un volante, Mario Andretti era capace quasi di tutto. Dopo aver vinto diversi titoli a ruote scoperte era arrivato anche il trionfo nell’universo parallelo delle stock cars, la vittoria nella gara più prestigiosa della stagione NASCAR, la 500 miglia di Daytona. Il suo sogno, però, era un altro; ripetere le imprese delle Ferrari e battere tutti sull’ovale più famoso del mondo, quello di Indianapolis. L’impatto non fu dei più semplici ma la fortuna sembrò sorridergli in un anno molto speciale, il 1969. Ne successero davvero di tutti i colori, tanto che nessuno avrebbe scommesso un solo centesimo sul trionfo del pilota istriano. Andretti era veloce ed esperto ma parecchi nutrivano parecchi dubbi sulla sua vettura, la Lotus 64, strana monoposto a quattro ruote motrici figlia del genio di Colin Chapman che avrebbe dovuto rivoluzionare per sempre il mondo della IndyCar. La Lotus era velocissima ma i due meccanici di Andretti la detestavano: "L’avevamo provata ad Hanford e in Inghilterra ma dovettero fare 200 modifiche. Aveva un’enormità di problemi, scaldava troppo e non aveva mai corso una gara. Sapevamo che era veloce ma non poteva arrivare alla fine. Non si vince ad Indianapolis con una vettura totalmente nuova".
I dubbi dei meccanici si rivelarono corretti durante le prove, due giorni prima dell’inizio della settimana delle qualifiche: la monoposto numero 2 di Andretti si schiantò nel muretto della curva 4, prendendo fuoco. "Avevamo dubbi sulla trasmissione, sui giunti. Colin Chapman, per risparmiare tempo e soldi, aveva usato materiali derivati dalla Formula 1. Quando gli chiedemmo se sarebbero stati in grado di reggere i carichi aerodinamici di un ovale, ci disse di stare tranquilli. Chiaramente, a rompersi furono proprio quei giunti".
Esaminando il rottame, ci si rese conto che la Lotus non avrebbe mai potuto finire una corsa massacrante come la 500 miglia. Chapman fu costretto a ritirare la vettura, lasciando a piedi Andretti, il campione del mondo inglese Graham Hill ed il veloce austriaco Jochen Rindt. I meccanici americani, però, rimasero sorpresi da come la Lotus prese il durissimo impatto con il muretto: "Aveva parecchie parti piccole, quindi resistette meglio all’impatto. La macchina si disintegrò, ma quando succede questo rende il colpo meno duro per il pilota". Mario Andretti uscì dall’incidente solo con qualche bruciatura sul volto, costretto a ripartire da zero con un’altra vettura, che si era portato dietro giusto in caso. Nonostante avesse solo un giorno e mezzo per trovare l’assetto, l’istriano riuscì a qualificarsi al secondo posto, tra due giganti della IndyCar come A.J. Foyt e Bobby Unser.
Dalla tragedia alla gloria
Andretti ha più tardi ammesso che il team aveva iscritto la Hawk alla Indy500 solo per avere più spazio nella pit-lane ma non avevano intenzione di usarla davvero. Un mese prima aveva vinto una gara locale ma sull’ovale di Phoenix, poche settimane prima, si era dovuto ritirare dopo solo 38 giri per problemi meccanici. "Certo non un inizio positivo per questo telaio, ed ora dovevamo farci 500 miglia. Non avevamo scelta; siamo in ballo e ci tocca ballare, anche se la musica non ci piace". Nonostante la prima fila, il team di Andretti sapeva che la vettura aveva problemi di raffreddamento, tanto da costringere i meccanici ad installare un radiatore esterno. I rivali protestarono vivamente, dicendo che non era permesso modificare le vetture dalla qualifica alla corsa.
Il team fu quindi costretto a mettere il radiatore dietro al sedile del pilota. "Non fu semplice, ci toccò smontare la macchina ed avevamo solo due giorni prima della gara. Rinchiudemmo due meccanici nel box la sera prima della gara, così da finire i lavori. Riuscimmo a finire alle 4 del mattino. Non riuscimmo nemmeno a provarla, cercammo di far girare il motore e vedere se c’erano delle perdite ma non avevamo la minima idea se avrebbe retto per tutta la gara".
Fin dal primo giro, la situazione sembrò mettersi subito per il peggio. Partito a razzo, Andretti si accorse che le temperature erano già al limite, tanto da costringerlo a rallentare. Masticando amaro, il pilota istriano fu superato da McCluskey e Foyt, ma la Dea Bendata iniziò a giocare a suo favore. Entrambi i piloti furono costretti a ritirarsi, seguiti al giro 105 da Lloyd Ruby in seguito a problemi al box. Nonostante tutto, Andretti era convinto che sarebbe riuscito comunque a vincere: "Gli avversari mi potevano passare solo quando stavo rallentando per far raffreddare il motore. Quando potevo spingere per un paio di giri, li riprendevo sempre. Ero in controllo". Una volta usciti i suoi rivali più pericolosi, Mario sapeva di dover solo gestire le cose, tanto da distrarsi un po’ troppo. Proprio mentre stava annusando il barbecue dei tifosi, per poco non perse il controllo della vettura nella curva 2, finendo quasi sul muretto.
L’unico problema? La macchina era un forno. "Visto che avevo il radiatore dietro al sedile, la schiena si riempì di pustole. Mentre stavo correndo non me ne rendevo conto, ma dopo fu un inferno". La gara si concluse con un nuovo record del circuito in 3 ore 11 minuti 14 secondi, con due minuti di vantaggio sul secondo. Eppure ci vollero pochi minuti per rendersi conto di quanto si fosse arrivati vicini al disastro. Il capo meccanico si accorse che il cambio era completamente a secco di olio e che i cuscinetti a sfera stavano per saltare. Andretti ammise più tardi che "non credo avrei potuto completare un altro giro con quella macchina. Arrivammo proprio al limite. Quel giorno ero destinato a vincere".
La maledizione di Indianapolis
Da quel momento in avanti, la carriera di Mario Andretti andò di bene in meglio, tanto da essere riconosciuto dal circuito di Indianapolis come il "pilota del secolo". Arrivarono parecchie altre vittorie, incluso il titolo di campione del mondo di Formula 1 proprio con quella Lotus che per poco non gli era costata la vita. L’ultimo pilota con licenza statunitense a trionfare nel campionato del mondo si ritirò ad età avanzatissima, lasciando il posto al figlio Michael e ad una serie di nipoti più o meno competitivi, tanto da dare origine ad una vera e propria dinastia motoristica. Eppure, da quel momento, il circuito che aveva visto il suo trionfo più grande divenne una specie di tabù.
Mario Andretti ha accumulato una serie di record davvero incredibili, dal maggior numero di gare, alle pole position, ai giri passati in testa, ma non si è mai riuscito a ripetere sul circuito più iconico d’America. Il rapporto con Indianapolis è sempre stato complicato: prima della vittoria del 1969 non era mai riuscito ad arrivare a metà gara, riuscendo a ritirarsi ben due volte nel 1968, riuscendo a rompere sia la sua monoposto che quella del compagno di scuderia. Si è visto di tutto: incidenti disastrosi, rotture di motori, problemi all’acceleratore, guasti del tutto inspiegabili, tanto da far parlare apertamente di una vera e propria maledizione.
Anche se gli Andretti fanno finta di non crederci, le storie sull’origine della curse si sprecano: c’è chi dice che a portare rogna sarebbe stato Andy Granatelli, magnate italo-americano proprietario della vettura vincente del 1969, che volle celebrare il suo connazionale con un bacio nel winner’s circle, l’area riservata ai piloti vincitori. Le capricciose divinità del motore non gli avrebbero perdonato questo sgarbo. C’è invece chi dà la colpa a Tom Carnegie, famoso telecronista del circuito di Indianapolis. Quando Mario Andretti iniziò a subire una serie di incidenti e problemi tecnici, Carnegie iniziò a dire una frase che divenne celebre: "Mario is slowing down!”" ovvero "Mario sta rallentando".
Inevitabilmente, nel giro di pochi giri, il pilota istriano si ritirava. La gara che avrebbe consolidato il mito della maledizione fu una delle prime dopo il trionfo in Formula 1, nella stagione 1981. Una delle Indy 500 più controverse di sempre, dai problemi in partenza, al caos sulle regole, agli strascichi legali, si sarebbe decisa non sul famoso ovale ma addirittura in tribunale. Gli spettatori videro la vettura di Bobby Unser arrivare per prima, pochi secondi davanti alla monoposto di Andretti ma sedici ore dopo, un comunicato assegnò la vittoria all’istriano, in seguito ad una penalizzazione per il pilota americano. Ci vollero ben cinque mesi di aspre lotte in tribunale prima che la vittoria fosse assegnata di nuovo ad Unser, ma la questione è ancora vivissima. Entrambi i piloti hanno ricevuto gli anelli del vincitore e Mario Andretti continua a dire di essere il vero vincitore. I due amici per la pelle non si sono parlati per anni, rovinando una grande amicizia. A questo punto, forse non è solo una questione di fortuna.
La maledizione continua
Dopo trent’anni passati a trionfare in tutto il mondo, Mario Andretti appese il volante al chiodo nel 1994 ma non smise di sfidare la sua bestia nera. Nove anni dopo, mentre stava provando la monoposto di un altro pilota, mettendo giri veloci su giri veloci, la macchina davanti a quella di Mario ebbe un incidente, spargendo rottami su tutta la pista. Ad oltre 320 km/h, la monoposto di Andretti prese il volo, girando un paio di volte in aria per atterrare sulle quattro ruote. Incredibilmente il pilota istriano ne uscì del tutto indenne. Il pubblico ebbe la conferma che stava aspettando: la maledizione non si era fermata con il ritiro di Mario, ma ora coinvolgeva la sua intera famiglia. A conferma il fatto che Michael e Marco, figlio e nipote, nonostante carriere del tutto rispettabili, non sono mai riusciti a vincere ad Indianapolis. Michael è stato in testa alla Indy 500 per oltre 400 giri ma non è mai riuscito a trionfare. Ogni volta che Marco è sceso in pista sull’ovale dell’Indiana si sono visti solo incidenti e guasti. Jeff, l’altro figlio di Mario, ha fatto ancora peggio: le tre volte che ha provato la 500 miglia sono finite con due incidenti ed un 15° posto. Il nipote di Mario, John, ha avuto vita altrettanto difficile.
Due volte le cose sembravano essersi messe davvero bene per gli Andretti, a partire dalla gara del 1992. Quell’anno in pista c’erano addirittura quattro Andretti, Mario, Michael, Jeff e John. Nonostante un raduno di famiglia mai visto prima nella storia dei motori, la gara si rivelò un disastro su tutta la linea. Mario e Jeff finirono sul muro, trasportati all’ospedale a scanso di equivoci mentre la monoposto di Michael semplicemente si spense, senza nessuna spiegazione, lasciandolo a piedi. Nel 2006 furono Michael e Marco a provare a rompere la maledizione e, a pochi giri dalla fine, sembrava davvero la volta buona. I due Andretti erano primo e secondo, con un buon vantaggio sui rivali. Neanche stavolta, però, riuscirono ad alzare al cielo il trofeo. Sam Hornish Jr. mise una rimonta clamorosa, riuscendo a superare Marco in volata, in uno dei finali più emozionanti della storia della Indy 500. La Dea Bendata, dopo aver graziato così tante volte i membri della famiglia istriana, ha deciso di negargli la gioia più bella.
Meglio dal muretto
A sentire la famiglia più titolata delle quattro ruote a stelle e strisce, la maledizione in realtà non esisterebbe davvero. Intervistato dall’Indianapolis Star, Mario si dice convinto che sia tutta un’invenzione dei media. "Non riuscirete mai a farmici credere. Non ne voglio sentire più parlare. Indianapolis è un circuito molto caro a me e alla mia famiglia. Non è un tracciato facile, abbiamo avuto tantissime delusioni qui ma continuiamo a volergli un gran bene". Il nipote Marco la pensa allo stesso modo, riflettendo sul fatto che, nonostante i tanti incidenti e le mille rotture meccaniche, tutti gli Andretti siano usciti dall’ovale con le proprie gambe. Visto che le corse sono un mestiere molto pericoloso, come si fa a parlare di sfortuna? Ogni volta che ti schianti ad oltre 300 km/h la possibilità di lasciarci le penne sono alte, eppure gli Andretti sono sempre qui, pronti a sfidare la fortuna un’altra volta.
Paradossalmente, le cose sono andate meglio quando i membri della famiglia più veloce d’America hanno abbandonato l’abitacolo per vestire gli abiti più comodi dei team manager. La scuderia che porta il nome di famiglia se l’è cavata decisamente meglio sul circuito di Indianapolis. Pur senza riuscire a replicare gli exploit dei Penske, di Paul Newman o di altri magnati delle corse a stelle e strisce, a partire dalla metà degli anni 2000, le vetture degli Andretti sono salite sul gradino più alto del podio ben cinque volte con cinque piloti diversi. Dan Wheldon nel 2005, Dario Franchitti nel 2007, Ryan Hunter-Reay nel 2014, Alexander Rossi nel 2016 e l’ex F1 Takuma Sato nel 2017. La maledizione, insomma, non funziona altrettanto bene quando gli Andretti siedono dietro il muretto. Mario Andretti ci scherza sopra: "Guardate Michael, come si sta togliendo soddisfazioni. Non ha mai vinto da pilota ma ha cinque titoli da proprietario".
Un amore senza fine
Gli anni sono passati ma gli Andretti non riescono a guarire dalla febbre della velocità. Nonostante abbia 83 anni, Mario Andretti è ancora in grado di togliersi qualche soddisfazione, come quando, lo scorso ottobre, fece qualche giro sul famoso circuito di Laguna Seca con una moderna Formula 1. Grazie all’aiuto del team manager della McLaren, il campione del mondo salì su una MP4-28a del 2013 mettendo qualche giro veloce sul complicato tracciato californiano. Mario si è detto grato della possibilità, facendo capire che sarebbe potuto andare ancora più veloce: "Bisogna trovare i rapporti giusti e poi non riuscivo a vedere bene il cruscotto; in alcune curve indovinavo la cambiata, altre volte andava peggio. Comunque è andata come mi aspettavo: la macchina è davvero una meraviglia". C’è stato anche spazio per una battuta, quando ha detto che stava cercando di "accumulare abbastanza punti per riprendermi la Super Licenza", ma in realtà gli Andretti stanno puntando forte ad un rientro trionfale in Formula 1.
The legend @MarioAndretti makes his F1 return tomorrow in a McLaren. Mega! pic.twitter.com/Fdd7dFZEHi
— Zak Brown (@ZBrownCEO) October 15, 2022
Dopo il fallimento delle trattative per rilevare l’Alfa-Romeo, la Andretti Autosport sta provando ad ottenere una licenza dalla FIA per competere in Formula 1. A rendere ancora più probabile il tutto, è arrivata la notizia dell’accordo con la General Motors, ansiosa di schierare i motori Cadillac nel campionato più prestigioso al mondo. A sentire Mario, l’accordo con la GM consentirà sicuramente al team del figlio Michael di approdare in Formula 1 nel giro di pochi anni. Non sarà semplice ma con l’aiuto di uno dei colossi dell’automobile, gli Andretti potrebbero entrare nel circus dal 2026, quando entreranno in vigore le nuove regole sulle power units.
Il cammino non è semplice e diverse scuderie non sarebbero entusiaste all’idea di dover dividere il montepremi con un’altra squadra ma sottovalutare la determinazione degli Andretti non è mai una buona idea. A sentire Mario, parecchi pezzi da novanta sarebbero pronti a salire a bordo ed il lavoro per schierare delle monoposto competitive è già a buon punto.
Come quando correvano sulle stradine dell’Istria, l’amore tra gli Andretti e la velocità non è ancora finito. Qualunque sia il prossimo capitolo, la loro è una storia che può succedere solo in America.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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