Il movente La «passione» di Serviatti per i soldi delle sue vittime

La mattina del 16 novembre 1932, alla stazione di Napoli, arriva il direttissimo 7. In una vettura di seconda classe giacciono due grosse e pesanti valigie abbandonate. Mentre il personale di scorta provvede a collocarle sugli scaffali del deposito, una di esse si apre svelando il macabro contenuto. Entrambe contengono pezzi di corpo di una donna, cosparsi di segatura ed avvolti in giornali. Il giorno seguente alla stazione di Roma, in una vettura di terza classe del diretto 5, viene ritrovata un'altra valigia con altri pezzi dello stesso corpo. Le Questure ed i Reali Carabinieri svolgono indagini senza tregua per scoprire l'identità della vittima e l'autore dello scempio. Verrà accertato che i misteriosi bagagli provengono da La Spezia e che il cadavere è quello di Paolina Gorietti, cameriera presso una famiglia romana. Il 9 dicembre, in seguito alla testimonianza dei parenti e di un'amica della donna, è fermato nella Capitale il presunto autore del delitto. Si tratta del cinquantaduenne Cesare Serviatti, nato e residente a Roma, pseudo fidanzato della Gorietti ma in realtà individuo losco e pregiudicato, che pochi giorni dopo confessa di averla uccisa e depezzata. Il fatto è così ricostruito: il Serviatti, per mezzo di un avviso matrimoniale inserito sul Messaggero, ha conosciuto la vittima, donna di animo buono e di ottima moralità. Le ha promesso di sposarla inducendola a lasciare il servizio ed a recarsi con lui a La Spezia, dove si sarebbe celebrato il matrimonio e dove avrebbero aperto (ma col denaro della Gorietti: circa 12.000 lire), un piccolo negozio. Il Serviatti conosceva la città per avervi già gestito, nella seconda metà degli anni Venti, la Pensione Roma in via Genova.
Dopo qualche giorno dall'arrivo della coppia in Liguria il Serviatti ha strangolato e squartato la «fidanzata», in un appartamentino preso in affitto nella stessa via Genova, poi ha messo i pezzi del cadavere nelle tre valigie rinvenute sui treni - ad eccezione del pacchetto intestinale, del cuoio capelluto e del naso che lui racconta di aver buttato, dopo averne fatto un involto, nel canale del viale Savoia -. Nel frattempo la polizia appura che il Serviatti, nell'estate del 1930, conobbe un'altra cameriera di Roma, Beatrice Margarucci, della quale nessuno aveva più avuto notizie dall'ottobre di quell'anno. Il «bieco uccisore» e «barbaro sezionatore» - così viene battezzato dalla stampa dell'epoca - ammette di avere conosciuto pure la Margarucci grazie ad un avviso matrimoniale inserito sul Messaggero. Agli occhi dell'ingenua donna si è spacciato per pensionato e mutilato di guerra (gli mancava sì il dito di una mano, ma per tutt'altre ragioni) e l'ha convinta a trasferirsi da lui nel suo appartamento del Rione Esquilino, a Roma, con una promessa di matrimonio nel cuore ed in tasca tutti i suoi averi. Serviatti confessa di averla uccisa e squartata in quella casa, facendone scomparire il cadavere nel Tevere. Di quel corpo straziato si erano trovate soltanto due cosce, nel novembre del '30, in diverse località del litorale romano, presso la foce del Tevere stesso. Nel corso delle indagini gli inquirenti accertano inoltre che, verso la metà del luglio 1928, era misteriosamente scomparsa anche Pasqua Bartolini, vedova di un pensionato ferroviario. All'epoca in cui era proprietario della Pensione Roma, il complimentoso Serviatti l'aveva indotta a liquidare tutte le sue attività ed a lasciare Chiavari dove viveva, per trasferirsi a La Spezia. Lì sarebbero convolati a nozze. L'imputato ammette di avere condotto la Bartolini nella città spezzina, ma negherà sempre di averla ammazzata. Le testimonianze e gli elementi raccolti contro di lui, però, sono tali e tanti (ad esempio una mandibola di donna con denti simili a quelli della Bartolini e frammenti di scatola cranica rinvenuti nel pozzo nero dell'appartamento dove i due dimoravano), da non lasciare dubbio che il Serviatti sia stato l'autore anche di questo delitto e che si sia sbarazzato di gran parte del cadavere dopo averlo anch'esso tagliato a pezzi. Con premeditazione ed a scopo di furto: il baffuto assassino mirava ad entrare in possesso dei quattrini, dei valori e di altri oggetti che quelle disgraziate avevano portato con sé buttandosi tra le braccia affettuose del «mostro», senza presagire la trappola. «Anche l'Italia ha dunque il suo Barbableu. Cesare Serviatti (...) questa eccezionale figura che pare balzata da un atlante di antropologia criminale. Dopo il francese Landru ed il tedesco Peter Kurten, oggi è l'italiano Serviatti che si affaccia al culmine delle umane degenerazioni» scrive, con tipica caratterizzazione lombrosiana del delinquente, un giornale ai tempi del processo, che si svolge tra il giugno ed il luglio 1933 davanti alla Corte d'Assise di La Spezia. Per ideazione, movente e - forse - modalità di occultamento delle salme, il Caso Serviatti risulta speculare ad un altro giallo che accadrà a Correggio (Reggio Emilia) pochi anni dopo, fra il '39 ed il '40. Non per niente Leonarda Cianciulli (detta, secondo un cliché già smentibile da una perizia medico-legale dell'epoca, la «saponificatrice») è stata definita dalla stampa anche «Landru in gonnella», così come il Serviatti era stato chiamato il «Landru italiano», quasi che le loro gesta fossero, ciascuna a modo proprio, emule del celebre criminale francese. Anche la storia della cosiddetta Saponificatrice si lega alla Liguria: dopo la condanna, il marito e tre dei loro quattro figli si trasferirono qui.
Tra il «sezionatore delle cameriere» e la «saponificatrice di Correggio» si riscontrano curiose analogie: entrambi hanno un nutrito curriculum penale giovanile, fatto di reati vari contro il patrimonio e giorni di carcere; entrambi, in età adulta, pianificano ed attivano eventi omicidiari al solo fine di trarre profitti economici; quando vengono scoperti ambedue tentano astutamente, per scansare la fucilazione, di far slittare il movente dalla premeditazione al delitto d'impeto, o adducendo altre giustificazioni grottesche; stessa tipologia e numero di vittime: tre donne sole, nella parabola discendente della loro vita, non ricche ma con un gruzzolo da parte. Identico fu il sistema di adescamento: la mente truffaldina fece leva sul desiderio delle vittime di rifarsi una vita (ad esempio il matrimonio in un'altra città). Identico fu il modus necandi. Nel Caso Cianciulli, contrariamente a quello del Serviatti, la dispersione di pezzi di cadavere al di fuori dell'appartamento non risulta comprovata. Si riscontrano, infine, curiose coincidenze riferite ad alcuni resti repertati: protesi dentarie delle vittime e frammenti ossei gettati nel gabinetto e poi trovati nel pozzo nero dei rispettivi appartamenti (Serviatti in La Spezia e Cianciulli in Correggio). Entrambi non confessarono spontaneamente, ma solo quando il cerchio delle prove si strinse inesorabile. In ambedue i casi alcuni familiari vennero accusati di concorso nei crimini: Angela T., moglie del Serviatti, e Giuseppe P., figlio della Cianciulli, anche se poi assolti. Quest'ultimo, in un'intervista giornalistica rilasciata a Genova negli anni Settanta, dichiarò testualmente: «Nessun cadavere è mai stato trovato e mia madre è stata riconosciuta pazza: si può essere certi dei delitti imputatili? Posso, almeno, avere il diritto di tenere per me questo dubbio? È ciò che mi ha sempre aiutato a vedere la mamma sotto una luce diversa. Ma non mi fraintenda: il dubbio mi resta solo sotto una spinta emotiva, non per un ragionamento». Egli in Genova si rifece comunque una vita sposandosi e diventando stimato professionista. Al processo del 1933 i difensori del Serviatti (gli avvocati Cassinelli di Roma e Bellincioni di La Spezia) tentarono senza successo - così come, tredici anni dopo all'Assise di Reggio Emilia, i legali della Cianciulli - di dimostrare non meglio documentabili tare mentali dei loro assistiti. I testimoni dei rispettivi dibattimenti, anzi, dipinsero gli imputati come individui normali e, durante l'istruttoria e specie al processo, sia il Serviatti che la Cianciulli rivelarono una freddezza d'animo impressionante; si dimostrarono intelligenti, scaltri, attenti e pronti nella risposta, abili nel dominare le emozioni, insensibili e cinici (come non ricordare il piatto di pastasciutta, divorato in pochi istanti dal Serviatti davanti ai funzionari di polizia prima di una confessione, senza mancare di lodare la qualità della cucina, oppure le richieste - mai accolte - della Cianciulli di sezionare un cadavere davanti alla Corte per dimostrare di avere agito da sola?).
Gli esperti del Centro Studi Criminalistica ritengono che Cesare Serviatti e Leonarda Cianciulli possano essere definiti, al massimo, individui con disturbi di personalità, ma non infermi di mente al momento dei delitti (le conclusioni della perizia psichiatrica sulla Cianciulli, che la dichiarava totalmente incapace di intendere e di volere, non furono accolte dai giudici, mentre le numerose richieste di perizia sul Serviatti furono respinte); sono anzi criminali malvagi, scellerati, individui ai quali manca del tutto la coscienza morale. Documentazione d'archivio da me ritrovata permetterebbe, inoltre, di smentire il sadismo macabro-sessuale del Serviatti accampato dai suoi difensori e da altre pagine superficiali che, nel corso degli anni, lo hanno etichettato e imbottigliato come serial killer: questa forma morbosa è fine a se stessa, mentre il nostro sceglieva le sue vittime tra quelle alle quali poteva carpire danaro e ricorreva ad operazioni macabre sui cadaveri non per godimento, bensì per conseguire l'impunità. Anche la Cianciulli, peraltro, in un interrogatorio dichiarò di non aver provato piacere, ma forse ribrezzo, nello squartare i cadaveri. Il Serviatti e la Cianciulli sono, dunque, serial killer? Nella confusione concettuale di cosa davvero connoti il S.K., analizzando in parallelo queste due vicende della storia del crimine nostrana che toccano la Liguria, riteniamo che difficilmente costoro possano essere annoverati tra i protagonisti di omicidi seriali: il «Landru italiano» e la «Landru in gonnella» sono solamente pluriomicidi accomunati dal fine del vantaggio economico.

L'attuale moda di estendere la tradizionale definizione di serial killer a quasi tutti gli autori di più azioni omicidiarie - in linea con la quale i nostri due delinquenti sarebbero dei serial killer for-profit - sembra tesa alla sola affabulazione mediatica, benzina nera della criminologia da discount.
*Responsabile del Centro Studi
Criminalistica per la Regione Emilia-Romagna

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