Cantava una vita infernale con la sua voce angelica

Sinéad O'Connor è morta all'età di 56 anni dopo anni di battaglie per la salute mentale

Cantava una vita infernale con la sua voce angelica
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Alla fine ce l'ha fatta, poveretta lei, a mettere un punto. Sinéad O'Connor la inseguiva, questa fine, la inseguiva forse da quando era ragazzina e ha preso la propria personale strada per l'autodistruzione, la musica. Prima scrivendo canzoni per gli In Tua Nua (baciati dalla critica più chic) e poi da sola, essendo rimasta davvero sola. Nata nell'uggiosa Dublino, a dicembre del 1966, ennesima figlia di una famiglia torrenziale, sorella di un Joseph poi diventato scrittore di successo, a neanche vent'anni, lei così ribelle e asociale, aveva fatto i bagagli per fare tutto a modo proprio nell'unica città europea che te lo lasci davvero fare: Londra. Era la «next big thing», la prossima rivelazione annunciata. Ora è la «new sad news», la nuova brutta notizia del pop. E quasi per un gioco crudele del destino, Sinéad Marie Bernadette O'Connor è sopravvissuta per anni a Prince, l'autore del suo più grande successo (Nothing Compares 2 U) che nel 1990 lei interpretò con inaudita intensità, modulando e spargendo una voce adolescente e casta dentro un testo sull'amor perduto da «sette ore e quindici giorni». Boom.

Questa ventenne amata dalla critica si fece amare dal pubblico e forse iniziò davvero a odiarsi. Sindrome bipolare, hanno detto i medici anni fa, consacrando un sospetto che circolava da tempo. Incontrandola a Parigi nel backstage di un teatro, sembrava, a quarant'anni già sorpassati, un pulcino spaurito, grossa come una donna irlandese di fine Ottocento, e sgualcita come un busker, un artista in sosta vietata sulla strada della perdizione. Dopo Nothing Compares, ha smesso di entrare nei piani alti della classifica per entrare nel quartiere della cronaca. Giusto il tempo di avere un flirt con Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers (che le dedicò I Could Have Lied da Blood Sugar Sex Magik) e poi vai con le esagerazioni. Non c'era, in quelle di Sinéad O'Connor, la voluttà di provocare, l'autocompiacimento narcisista. Erano grida disperate, urla incomprensibili agli estranei alla sua mente. Frank Sinatra l'avrebbe volentieri «presa a calci nel sedere». Nel 1992 il pubblico del Madison Square Garden (c'era l'omaggio ai 30 anni di carriera di Bob Dylan) la fischiò così tanto da farle abbandonare il palco tra le lacrime. E mezzo mondo rimase a bocca aperta quando lei al Saturday Night Live prese la foto di Giovanni Paolo II e la strappò in diretta tv dicendo testuale: «Combattete il vero nemico». Forse l'unico caso di contestazione pop a Papa Wojtyla (cinque anni dopo lei, in un attimo di lucidità, si scusò).

Intanto la sua musica si arenava nella melma delle contraddizioni, della mancanza di lucida ispirazione, della siccità di apparizioni pubbliche e convincenti. L'album Universal Mother, anno di grazia 1994, fu un flop piuttosto doloroso, anche perché pure la critica rimase indifferente, senza parlare delle prevendite ai concerti in disastroso ribasso. Da allora Sinéad O'Connor, anzi Madre Bernadette Mary come annunciò di essere stata consacrata nel 2003 da un movimento cattolico indipendente, ha iniziato a camminare su di un Golgota sempre più aspro, sempre più distante da un pubblico ormai disorientato dalla ragazza diventata famosa per una canzone d'amore che ora sogna di «salvare Dio dalla religione». Tutto, insomma, tranne salvare se stessa. Si sposa a Las Vegas con un disgraziato Barry Herridge, ritornato single dopo 18 giorni grazie a un divorzio lampo. Pubblica un disco sepolto subito dopo grazie all'annullamento di tutte le date causa «disturbo bipolare». Erano già pochine visto il titolo dell'album a un passo dal trattamento sanitario obbligatorio: «Cosa sarebbe se io fossi io (e tu fossi tu)?».

E che cosa sarebbe stato se l'anno scorso non fosse morto uno dei suoi quattro figli, Shane, 17 anni, suicida dopo esser fuggito da un centro psichiatrico per aspiranti suicidi? È stato probabilmente il colpo di grazia. Nel 2017 lei, forse già malata della malattia mortale ma comunque sempre in preda a ossessioni, annuncia di aver cambiato nome: sono Magda Davitt. Nel 2018 è già un'altra: «Mi chiamo Shuhada Davitt, sono orgogliosa di essere diventata musulmana».

Il resto è il tramonto di una delle voci più belle e sofferte che il pop abbia mai avuto. Gli annunci su Facebook: «Ho un'overdose, finalmente vi siete sbarazzati di me». L'allontanamento da Nothing Compares: «Non la sento più mia».

L'addio progressivo alla vita, così cercato, così annunciato, così atteso prima di inforcare, un maledetto giorno, la bicicletta e pedalare lungo gli ultimi metri di una vita invivibile e vissuta per tanti anni nel buio delle ossessioni.

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