Storie. Racconti. Amori. Una patria da riconquistare. Un mondo che non basta. Una compagna da riabbracciare e una che viene brutalmente uccisa ormai a guerra finita perché amava l'uomo sbagliato. Alessandro ai confini del mondo. La Decima con i suoi motori a lenta corsa. Il dramma delle marocchinate. San Patrignano. Questo è Negli occhi di Ulisse, l'ultimo album di Skoll.
Com'è nato l'album?
Ho iniziato a scrivere Negli occhi di Ulisse qualche mese dopo il periodo di lockdown. In quel periodo riflettevo frequentemente sull’importanza del semplice gesto di tramandarsi le storie, anche oralmente. Credo che la musica, la canzone, sia la forma di espressione che, almeno potenzialmente, abbia le caratteristiche per avvicinarsi a quella tradizione. Una tradizione fatta di racconti che passano di padre in figlio finendo per colpire, spesso indelebilmente, l’immaginario delle nuove generazioni. Racconti vivi, incarnati da uomini leali, coraggiosi, capaci di distinguersi, talvolta capaci di mettersi alla testa di altri o di rinunciare al mito di una vita comoda per un bene più grande, quasi sempre comunitario. A pensarci bene, per certi aspetti, le nazioni sembrano cementate dai loro protagonisti. E la nazione significa sempre cultura condivisa, vicina, familiare. Ciò che quegli stessi uomini hanno difeso. Alessandro Magno amava i versi di Omero e si immedesimava nei protagonisti dell’Iliade e dell’Odissea. Ai tempi di Alessandro, i poemi omerici erano già antichi. Esercitavano su di lui il fascino trainante, straordinario dei racconti dei padri. Quei versi lo facevano sentire parte di una storia più grande, di qualcosa che c’era stato prima di lui e che sarebbe continuato dopo la sua morte. Così, da quei versi traeva ispirazione continua per diventare protagonista della storia del suo popolo, per uno slancio di conquista e per la fiducia nel futuro… per una vita da coraggioso. Oggi potrebbe esistere una forma di canzone che si ispiri alla tradizione del tramandare? Potrebbe avere senso una forma diversa rispetto a quella più comune, stereotipata, quasi ossessiva della canzone d’amore?
Che cosa differenzia questo album dagli altri?
In quel periodo mi domandavo se potesse in qualche modo esistere un punto di unione tra queste due forme di canzone, apparentemente così lontane… da una parte il racconto tramandato e, dall’altra, le pagine di un diario personale. Negli occhi di Ulisse si chiude con una canzone intitolata Il silenzio che muove dall’immagine di Alessandro Magno a fine giornata, stanco, che prende sonno rileggendo a voce alta i versi di Omero e finendo per sognare la società incisa nello scudo di Achille (dove gli uomini vivono nell’armonia delle radici, della propria cultura) ma che prosegue in un racconto più personale, attualizzato… di una visione del mondo in cui ci si ritrova fin da bambini e che gradualmente traina controcorrente in una realtà cinica, individualista, disordinata, preda di solitudini ed egoismi. Così mi è sembrato di trovare – almeno in parte, magari per alcuni momenti – quel punto di unione. Ho finito per scrivere alcune storie muovendo da miei ricordi di bambino, di quei momenti lontani che ogni tanto tornano a farsi vivi… Ecco Luisa per esempio, il racconto di una pagina vile della resistenza che, per i curiosi intrecci della vita, sfiorò mia nonna. È la storia dell’assassinio di Luisa Ferida, diva del cinema italiano, rea esclusivamente di essere stata la donna di Osvaldo Valenti, attore che aderì alla Repubblica Sociale. Dopo la guerra, Giuseppe Marozin, il partigiano che la “giustiziò” nel 1945, ammise che tutti sapessero bene che la Ferida “non aveva fatto assolutamente nulla”. Luisa era incinta di quattro mesi. Lo raccontava mia nonna – all’epoca dei fatti ventenne – che conobbe l’attrice in quelle settimane infuocate di guerra civile. Così, tra i versi della canzone, “l’amore ci spoglia / hai lo sguardo da grande ma credi ad una promessa / è un amore che inizia / nel racconto di mia nonna mentre mi fa una carezza”.
San Patrignano: perché hai deciso di raccontare questa storia?
Credo che Vincenzo Muccioli sia stato un uomo con una visione molto chiara. Aveva capito che per “crescere”, ognuno ha bisogno di vivere una forma di vita comunitaria fatta di regole condivise, di sostegno, di fermezza, di disciplina, di lavoro. La rinascita dei ragazzi di San Patrignano passava da una vita di condivisione, dal “noi” come terapia, dal sentirsi parte di un insieme che dà forza, in evidente contrasto con drammatiche solitudini. Lontano da una visione relativistica che pare predominante, il gruppo accoglie e nel gruppo ci si integra seguendo un percorso ben tracciato e già iniziato. Ricordo che quando ero ragazzino, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, si parlava molto spesso di San Patrignano. Già allora c’era chi ne metteva in risalto le luci e chi iniziava a discutere i metodi di recupero della comunità o a parlare di ombre. Arrivarono certi racconti negativi, soprattutto mediatici, ad effetto. I servizi televisivi erano impressionanti e mi colpivano negativamente. Ricordo, però, mio padre: difendeva Muccioli e il suo impegno. Credo che, forse istintivamente, naturalmente, ne condividesse la visione. Un giorno portò me e mio fratello in un laboratorio artigianale dove lavoravano ragazzi di una comunità di recupero. Mi colpì più di quei servizi televisivi, lo ricordo ancora oggi. Certo, evidentemente, la vita in una comunità era una strada dura, in salita, fatta di sofferenza e di sacrificio… ma non c’erano alternative, non c’erano davvero altre possibilità. Volgere lo sguardo, guardare di lato, fare finta di niente è felicità illusoria. Oggi crediamo che tutto sia facile, comodo, piacevole. Abbiamo scacciato il pensiero di ciò che richiede impegno, fatica, dedizione, costanza. Ma non esiste alcuna crescita senza impegno e costanza. Credo seriamente che a molti ragazzi alle prese con problemi gravi come quello della tossicodipendenza abbiano fatto più danni i sorrisi vuoti, gli incoraggiamenti gratuiti, le illusioni facili piuttosto che gli “sguardi severi” di un buon padre di famiglia.
La Decima e le marocchinate: c'è tanta Seconda guerra mondiale, vista con un occhio diverso. Come mai hai deciso di mettere in musica queste storie?
Corsa lenta è dedicata alle imprese straordinarie dei soldati italiani a cavalcioni dei “maiali”, dei siluri a lenta corsa… è la canzone del coraggio. Un’epopea bellica fatta da italiani in carne e ossa, non da divi hollywoodiani, su mezzi d’assalto subacquei all’attacco delle navi nemiche inglesi nei grandi porti di Gibilterra e Alessandria. Il periodo è lo stesso ma lo scenario è completamente diverso ne La notte non dura che un momento… da anni volevo scrivere una canzone su quello che, sicuramente, è il tema più difficile dell’intero disco: le “marocchinate”, le terribili violenze che migliaia di donne subirono nel 1944 soprattutto nelle zone interne del Lazio. Fu uno schifo dei vincitori, con i comandi alleati che avallarono come diritto di preda gli stupri dei “goumiers”, le truppe marocchine inquadrate nell’esercito francese. La canzone non è un atto di accusa – la storia è lì, ci parla – piuttosto muove dalla forza, dalla dignità e dalla fermezza delle donne della Ciociaria alle prese con una tragedia così grande. Il tempo passa ma la storia resta, come il monumento alla mamma ciociara a Castro dei Volsci: è marmo bianco, immobile, tra un panorama sterminato e nuvole che corrono.
- Fai spesso riferimento al mare. Perché?
È vero, in questo disco il riferimento è costante. Da un certo punto di vista può sembrare curioso, quasi paradossale: il mare lo conosco poco, solo superficialmente (ne Il silenzio ho scritto che “credo non cambi mai nulla nell’uomo nel suo profondo che spinge un passo più in là / non sono nato per mare ricordo che da ragazzo tornavo a casa con la terra sotto le unghie / ma da sempre ritrovo quella visione del mondo / anche se oggi mi sembra di gridare nel sogno / insistendo su rotte contro l’ostinato soffiare del vento”). Da bambino, però, il mare al largo, l’acqua scura, le profondità mi spaventavano… da allora, di riflesso, associo il mare al vivere contro le proprie paure, inevitabile condizione dalla quale scaturisce ogni forma di coraggio.
- Perché proprio Ulisse?
Come ho scritto recentemente presentando questo mio nuovo disco, io credo che il senso ultimo e profondo del vivere di Ulisse – a differenza di quanto comunemente si creda – non sia il viaggio. Oggi, nell’era dello svago, del disimpegno, della deresponsabilizzazione, forse lo scrivono in pochi. Però io credo che il senso del vivere di Ulisse sia nella risposta al richiamo costante, infinito della propria terra, della propria cultura e dei propri affetti. Di ciò che più abbiamo a cuore e che dovremmo essere pronti a difendere, direttamente, in prima persona, senza dare sempre per scontato che ci sia qualcun altro a farlo al posto nostro. Tutto il bello che ci circonda e la parte migliore di noi sono il frutto di una conquista. E tutto ciò che è stato conquistato richiede uno sforzo ancora più grande, più faticoso, meno appariscente, privo di gloria: una difesa fatta di impegno, costanza, cura, dedizione, responsabilità, sacrificio… Così, in questo mio nuovo disco, muovendo dalle nostre origini omeriche, racconto di esempi, di una visione del mondo, di slancio e attitudine, di uomini e donne che in varie forme e in varie epoche hanno incarnato ciò che amavano al di sopra di tutto, non aspettando che lo facesse qualcun altro al posto loro. Anzi, diventando ciò che gli altri non avevano il coraggio di essere.
"Quando abbiamo iniziato a girare nel vuoto / a dare tutto per ovvio, che ci fosse dovuto / che ci sia sempre un altro a difendere ciò che più vale? / e svaghiamo lontano, senza rotte di casa / sempre altrove, nel niente, dove nulla vale la pena / ormai siamo distanze, bottiglie vuote nella corrente / ma gli uomini esistono perché altri si sveglino".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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