A 20 anni esatti di distanza dalla sua scomparsa una domanda potrebbe restare ancora inevasa: che cosa direbbe oggi Giorgio Gaber sui fatti riguardanti la stringente attualità se fosse ancora vivo? Per soddisfare pienamente questa curiosità, si potrebbe tranquillamente rispondere... "niente". Niente, perché in realtà lui aveva già capito e raccontato il futuro. Era avanti (almeno) di due decenni; tutto quello che è accaduto dal 1° gennaio 2003, giorno della sua morte nella sua casa in Versilia a nemmeno 64 anni, il Signor G lo aveva profetizzato. E, come tutti i precursori, non è stato capito da tutti. Non solo, ma spesso (purtroppo) di Gaber spesso si conosce il nome, ma non l'arte.
Giorgio Gaber: la rottura con la tv
Del resto, Giorgio Gaber è attualissimo. A riascoltare certi suo storici brani c’è da rimanere attoniti. Ad esempio "Quando è moda è moda", canzone nella quale elenca tutte le manchevolezze della sinistra, sembra scritta oggi. Sulle musiche di Franco Battiato e Giusto Pio, quella feroce invettiva spiegava alla perfezione già tutto il colpevole disastro sinistrorso. Eppure, due decenni dopo averlo inderogabilmente salutato per l’ultima volta, in pochissimi conoscono veramente Gaber. Lo si cita a sproposito oppure lo si riveste troppo (inutilmente) di zucchero. Lo si ricorda per canzoni meno intriganti come la filastrocca "Destra-sinistra", che altro non era che un giochino (ben riuscito, tra l’altro) composto con un impegno minimo.
Succede inoltre che la televisione tenda a soffermarsi sui suoi anni '60: quelli del Gaberščik (questo era il suo vero cognome) "minore" – benché comunque notevole –. Quelli, per intenderci, di "Non arrossire", "Il Riccardo", "Torpedo blu" e "La ballata del Cerruti", poiché brani innocui. Ma dal quel mondo Gaber fu il primo ad allontanarsi: lo fece nel 1970, abbracciando il teatro e rompendo col piccolo schermo (contro ogni regola commerciale). Era innamorato del contatto diretto: in questo venne sicuramente stimolato da un tour con Mina e sedotto dal Piccolo Teatro di Milano. Chi lo ricorda come un artista trasversale e rassicurante non racconta dunque la verità: Gaber non lo era e non lo voleva essere. Detestava il mondo discografico e, dopo il '70, andò in tv giusto un paio di volte e da suoi veri amici (Gianni Minà e Adriano Celentano).
L’avventura del Teatro Canzone
L’attrazione per l’alternanza di musica e monologhi gli fu fatale. Ecco quindi nascere il Teatro Canzone. Quello del Gaber vero. Lo scoprì insieme a Sandro Luporini, pittore e paroliere viareggino che aveva nove anni più di lui, puntualmente dimenticato quando si parla di Gaber. Tuttavia non si può menzionare l’uno senza citare anche l’altro: erano, nella sostanza, la stessa persona. Indivisibili per trent’anni di spettacoli, dal 1970 al 2000: “Libertà obbligatoria” e “Polli di allevamento” su tutti. Fustigatori del luogo comune e delle coscienze, nonché veneratori del dubbio, i due erano fortemente convinti che soltanto scalfendo brutalmente lo spettatore se ne potesse tenere in vita la morale.
In quel periodo storico gli album non gli interessarono più: esisteva solamente il palcoscenico. Nessun brano o monologo risultava accomodante. Il gusto garbato per l'ironia gli consentì, in un certo senso, di indorare la pillola: basti pensare a "Lo shampoo", "L’odore", "Pressione bassa". Inimitibile e irresistibile, Giorgio è consapevole di essere impegnativo, con una presenza scenica esplosiva – a dispetto di un fisico smilzo – che trascinava il pubblico in una coincidenza di (infinite) risate e di (altrettanta) rabbia. E anche le lacrime, di certo, non mancavano.
Gli attacchi subiti da sinistra
Come potere allora definire Giorgio Gaber in una sola parola? Iconoclasta, urticante (per indole e mai per moda), intellettuale, anti-italiano? Certo, anche. Anarcoide? Sì, senza dubbio: era l’unica etichetta che veramente poteva accettare. Ma soprattutto era un vero genio. Non era capace di appartenere politicamente, anche negli anni Settanta: era un vero cane sciolto. Ovviamente a comprendere meno la sua genialità è stata la sinistra, che per un po' lo trattò come un compagno un po' esagitato, salvo poi emarginarlo prima e, quando Gaber ne rivelò tutte le ipocrisie e meschinità, manganellarlo in seguito. Venne difatti accusato sistematicamente di disfattismo e qualunquismo, soprattutto dagli pseudo-intellettuali del Bar Casablanca e dai "Polli di allevamento" sinistrati da cui si emancipò nel 1978 ("Non sono più compagno né femministaiolo militante").
I "grigi compagni del Pci" lo misero da parte. Il Corriere della Sera, in un articolo firmato dal poeta Giovanni Raboni, lo inserì nell’estetica leghista. Il latinista Luca Canali, sull’Unità, parlò di un "triste tramonto di un menestrello", mentre Repubblica non sopportava per niente la ritrosia di Gaber ad allinearsi al "Vangelo secondo Lenin". Qualcuno, poi, si fermò al mantra frainteso "Libertà è partecipazione". Un'espressione che, per ammissione di Gaber e Luporini, ebbe così tanto successo da risultare antipatica ed estranea anzitutto agli autori stessi.
La moglie candidata con il centrodestra
Pagò (e paga ancora oggi) sotto forma di critica anche l’esperienza politica della moglie Ombretta Colli in Forza Italia. A tal proposito, fu proprio lei a raccontare i retroscena della sua candidatura per il centrodestra: "Una sera a cena gli dissi che Berlusconi mi aveva chiamato per sondare la mia disponibilità. 'E tu che hai deciso?' 'Ci devo pensare'. Quando poi gli comunicai la mia scelta, disse una cosa che avrebbe ripetuto ogni tanto: la politica ha bisogno di persone per bene. E mia moglie è una persona per bene". Anche la destra detestava Gaber, ma negli anni '90 non erano in pochi quelli che che piangevano durante "Qualcuno era comunista", pur non essendo mai stati di sinistra.
Allora, per ritornare alla domanda iniziale, cosa penserebbe Gaber oggi se fosse ancora tra noi? È piuttosto complicato a dirsi. Ma se era disilluso e incazzato allora, oggi forse lo sarebbe ancora di più: non solo per quanto riguarda meramente la politica, ma quanto piuttosto sulla società in genere. Il brano "Io se fossi Dio" è parecchio emblematico da questo punto di vista. E forse non ha nemmeno senso chiedersi se esiste (o se nascerà) un suo successore: Giorgio Gaber era unico. Le sue opere sono colme di spigoli che ci obbligano incessantemente a riflettere. Giorgio Gaber era dissacrante: faceva satira spietata su tutti. Senza distinzioni.
In poche parole: Giorgio Gaber era, semplicemente, meraviglioso. Oggi starebbe per compiere 84 anni e manca come il pane, quanto non mai. "C'è un'aria, un'aria, ma un'aria che manca l'aria...".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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