"Il suono più bello è il pianto di un bambino"

Il compositore e musicista sul palco per il tour dopo la malattia: "Mi sono avvicinato al buio più buio…"

"Il suono più bello è il pianto di un bambino"

L'atmosfera è un incanto. Silenzio assoluto nel cortile del Palazzo Reale di Palermo. Si sentono solo le parole magiche di Giovanni Allevi. Poi, all'improvviso, il pianto di un bambino rompe l'equilibrio. Allevi smette di parlare, alza la testa, sorride, e come fa molto spesso stupisce tutti: «Il pianto di un bambino è il suono più bello che esista al mondo. È più bello della musica». Parte un applauso trascinante, da brividi. Lui si mette al piano e inizia a suonare. Avrete già capito cosa è stata questa serata siciliana, organizzata dalla Fondazione Federico II e dal suo presidente, Gaetano Galvagno, che è anche presidente dell'assemblea regionale. Musica, filosofia, pensiero, saggezza, e un susseguirsi di emozioni. Allevi è uno dei più grandi musicisti del mondo. Ha il genio del compositore, la profondità del filosofo e le mani tremanti che accarezzano il piano come solo un Dio dell'arte sa fare.

È salito sul palco con la luce del tramonto siciliano, magrissimo, tutto vestito di nero con jeans, scarpe da tennis e la maglietta sulla quale il nero era interrotto da cinque o sei stelle d'oro. È tornato in pubblico qualche mese fa, dopo due anni passati a curare un cancro. Parla con disinvoltura della sua malattia e ci dice che qualunque cosa succeda bisogna continuare ad amare la vita. Perché il mondo è bellezza, arte, idee.

Maestro, lei negli ultimi anni ha vissuto dei momenti durissimi...

«Ci sono stati giorni difficili. In questi due anni mi sono avvicinato al buio più buio». Si commuove quando lo dice. Tiene le lacrime. Si interrompe. Poi riprende: «Ho due vertebre rotte. Hanno collassato. Mi danno dolore. Credo che questo dolore durerà per sempre. Ma il problema più grande che ho sta nelle mani. Tremano. Io ho bisogno delle mie mani. È una neuropatia. Non si risolve. Questa neuropatia ha una componente patologica, ma anche una componente psicologica. Allora ho imparato una cosa: quando mi prende il tremore, e sto suonando, devo immaginare una situazione positiva. E mi ripeto: stanno tremando, ma tu sei vivo, sei fragile, tu sei autentico, sei più forte del tremore. E allora mi riprendo. Mi è successo recentemente, durante un concerto. Ho pensato: devo fermarmi. Poi invece ho iniziato ad avere pensieri positivi, e ho continuato e ce l'ho fatta».

È vero che nei momenti più difficili si è aggrappato alla cultura?

«Quando sei lì attaccato alle flebo, senza sapere nulla del tuo futuro, senza più certezze, allora devi trovare una forza. Uno degli elementi della mia forza è stata la cultura. Ho letto molto. Ho capito delle cose. Il libro che mi ha colpito di più è stato Imperium, un testo del professor Brizi. In questo libro si racconta una cosa molto suggestiva: nell'antica Roma le persone che erano destinate al comando dovevano possedere tre qualità: autoritas, dignitas, e gratia. Le prime due sono prevedibili. La terza è la sorpresa. Per comandare bisogna avere grazia: grazia nel parlare, grazia nel muoversi, grazia nelle azioni, grazia nel dare gli ordini».

Ma lei si vede come uno che può comandare?

«Oh no, no davvero, non me ne parli. Mi ricordo quando ero giovane e insegnavo musica alla scuola media: ero un disastro. Non riuscivo a tenere la classe. Dopo cinque minuti i ragazzi volavano da tutte le parti, mi ricordo che ogni tanto arrivava il professore di italiano della classe accanto che non si rivolgeva nemmeno ai ragazzi ma si rivolgeva a me e con lo sguardo mi chiedeva: ma come è possibile che lei non sia in grado nemmeno di guidare una classe?».

Quindi lei e il comando siete un ossimoro?

«Già, però in quei due anni di sofferenza ero chiamato ad assumere il comando più importante: il dominio su me stesso».

E come si fa a mantenere il dominio su se stessi?

«Ho trovato una risposta nei versi di un antico poeta giapponese. Ascolta: camminiamo sull'inferno, guardando i fiori».

Che significa?

«Nella nostra vita ci troviamo a camminare sull'orlo dell'inferno, e dobbiamo riuscire a guardare dritto fuori dall'inferno, ai doni della vita, alla bellezza. Se non riusciamo a fare questo l'inferno ci inghiotte. Dobbiamo raccogliere i fiori. La vita continua a darci bellezza, anche quando tutto è nero. Dobbiamo guardare alla bellezza, e allora troviamo il dominio. Io ho iniziato a cercare un contatto con la natura. Quando ero in ospedale mi accontentavo di poco. Dietro la finestra c'era una piantina di basilico, e io ogni giorno raccoglievo una fogliolina e la annusavo. Poi quando sono tornato ad Ascoli Piceno, in campagna, ho ritrovato la natura».

Gli chiedo se gli ha fatto piacere che Repubblica lo abbia definito il «Mozart del secondo millennio». Ma lui scuote quel chilo di capelli ricci che ha in testa, mi sorride di nuovo e dice che è molto lusingato, che Mozart è un mito, ma lui non ama le definizioni, non ama essere incasellato. A lui piace essere Giovanni Allevi.

Solleva una mano dalla tastiera, continua a suonare con una mano sola, le note sono sempre più flebili, lui avvicina la sua mano, secca, affusolata, la avvicina al cuore, poi solleva anche l'altra mano dalla tastiera, la incrocia con la prima mano come a formare uno scudo, si copre anche il volto, con le mani: quello spiraglio di volto che si affaccia tra i capelli. Ora è silenzio. Tutto è immobile. Stupore. Di nuovo un applauso scrosciante. È finito, va via. Credo di aver capito cos'è un genio.

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