È il sedici novembre del 1922, esattamente cent'anni fa. La marcia su Roma è stata da poco archiviata. Una fortunosa dimostrazione di forza da parte dei fascisti, ma una dimostrazione tutt'altro che definitiva. Basti pensare al fatto che ancora il 30 ottobre il Re Vittorio Emanuele III offre l'opportunità di formare un nuovo governo ad Antonio Salandra. Che rifiuta. Solo allora arriva il turno di Benito Mussolini che alle 15, esattamente cento anni fa, entra alla Camera. Indossa una redingote, calzoni neri e ghette bianche. All'occhiello dell'abito il distintivo dei mutilati in guerra, arrotolato in mano il manoscritto del discorso.
Quello che non ha finito di mettere in chiaro la Marcia lo metterà in chiaro lui da lì a pochi minuti. Con un discorso tenuto come sempre con maestria naviga sul sottile crinale tra la blandizie e la minaccia, tra la retorica istrionica e il rischio calcolato di fare un passo falso. Passerà alla storia come «il discorso del bivacco» ed è uno dei colpi più riusciti del futuro Duce, che della Marcia per molti versi è stato il grande assente. Ecco perché un libro, ben scritto e con piglio dialogico/divulgativo, come La marcia su Roma (La nave di Teseo, pagg. 256, 10 euro) del giornalista Giorgio Dell'Arti chiude la narrazione dei fatti del 1922 proprio con quel discorso.
Mussolini, in un'aula gremita, parte subito con quello che, scacchisticamente, potremmo chiamare un geniale attacco di scoperta. «Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza». I deputati sono da subito ridotti a «signori», come se passassero di lì per sbaglio, eppure la frase, come si auto-dichiara è almeno «di formale deferenza». Non dà così a nessuno il tempo di organizzare una risposta efficace mentre parte un'accelerazione di concetti che in breve chiarisce le cose. Prima si parla dei diritti della rivoluzione - e che la Marcia non lo fosse davvero era un evidenza che non poteva sfuggire a Benito - per poi giungere a una chiara minaccia che era il cuore del discorso: «Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo... Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».
In poche righe Mussolini riesce a far coincidere se stesso con la presunta forza fascista - che sin lì dipendeva ampiamente dai quadrumviri più che da lui - e a esautorare il Parlamento riducendo la sua esistenza a una sua concessione. Atto che per altro relega lontanissimi sullo sfondo i poteri istituzionali dello Stato, a partire dal Re. Il cui unico merito diventa, nel discorso, di aver evitato la guerra civile non intervenendo. Del resto i suoi sarebbero stati tentativi «inutilmente reazionari». Sostanzialmente il Parlamento incassò tutto, magari rumoreggiando, ma incassò. Giolitti, amarissimo, gelò tutti: «Questa Camera ha il Governo che si merita».
Soltanto Filippo Turati, il giorno dopo, riuscì ad articolare una risposta dura e coraggiosa. «Abolite il Parlamento, anche se lo lasciate sussistere, come uno scenario dipinto, per il vostro comodo. Gli chiedete di svenarsi. Vi obbedirà».Aveva tragicamente ragione.
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